Ripartire da Wall Street
Cosa insegna la fragile protesta di Manhattan sulla forza delle manifestazioni popolari
«Sono solo un centinaio di vecchi fricchettoni e giovani squinternati», è una delle descrizioni che arrivano dal quartiere finanziario di Manhattan, intorno alla Borsa più importante del mondo, dove l’accampamento di “Occupy Wall Street” entra oggi nel suo tredicesimo giorno. È una storia interessante, quella di questa prima versione americana delle lunghe proteste di piazza che dai paesi nordafricani quest’anno si sono estese poi a Spagna, Israele, e altri esperimenti meno riusciti.
È interessante per un motivo piccolo e uno grande. Quello piccolo è l’incerto approccio dei media alla manifestazione: la quale contiene elementi di grande attrattiva per i pigri meccanismi dell’informazione – la crisi, le proteste popolari, l’imitazione di notizie precedenti, Manhattan, Wall Street – ma che non sono bastati finora a rendere trascurabili gli scarsi numeri dei partecipanti. È sinceramente impossibile anche per i titolisti più arditi rappresentare quello che sta avvenendo come una grande e rilevante protesta, per quanto un primo sciocco abbozzo di repressione violenta da parte della polizia abbia dato degli elementi momentanei di racconto.
Il motivo grande di interesse riguarda il futuro delle iniziative di protesta popolari nelle democrazie ricche. Con una battuta un po’ semplificatrice, ma efficace, il direttore della Stampa Mario Calabresi aveva spiegato qualche tempo fa al New York Times che “gli italiani sono indignati, ma non abbastanza da andare in piazza invece che al ristorante”. È la nota questione della contraddizione tra la grande crisi profonda e la ricchezza diffusa e superficiale, per cui nessuno che si aggiri per i centri delle città italiane lo direbbe un paese sull’orlo del collasso, e per cui pensiamo che la gente abbia ancora troppe comodità e privilegi per protestare davvero, rischiare, ribellarsi. Stiamo troppo bene, abbiamo troppo da perdere, ancora.
Vale poi anche per le proteste popolari e per le grandi iniziative di impegno politico quello che condiziona sviluppo e crescita di tutto, in Italia, dalla politica a ogni tipo di progetto: la ricerca del risultato immediato condiziona qualunque iniziativa, e la progettualità, la lunga distanza, la visione, la tenacia e la costanza si sono perdute. Da una parte è una questione psicologica, è l’ordine di idee in cui ormai ci muoviamo nelle nostre vite quotidiane, quello di vivere per i prossimi cinque minuti e fare programmi al massimo su dopodomani, gratificati e frustrati insieme da continui microsuccessi volatili. Dall’altra è anche un dato di fatto, di contesto: per ambire alla vittoria stabile e rilevante su una distanza lunga – in qualunque settore – ci vuole un capitale di fiato, risorse e scorte, che si sono fatte ovunque assai rare, negli ultimi tempi.
Per questo è interessante “Occupy Wall Street”, per chi studi e si interessi alle possibilità dell’iniziativa popolare di influire sulla vita politica e pubblica, soprattutto in maniera critica e “pesante”, utile come mai in tempi come quelli italiani attuali. Perché anche su quel piano ormai i benintenzionati ricercatori di idee e iniziative vagano spaesati consapevoli dell’infertilità e levità di ogni nuova manifestazione, campagna, pubblica dimostrazione o proposta (da cui la sovreccitazione per piccole momentanee invenzioni nuove, come la giornata “Sucate” su Twitter) : tutte verificatesi inutili se non per serrare i ranghi o per creare una specie di abitudinario “professionismo della protesta” ulteriormente avvilente le sue stesse chances (poi c’è qualcuno che perfino ci marcia, sulla routine della protesta). Tutte esaurite il giorno dopo, tutte fini a se stesse e inani rispetto alla solidissima catastrofe politica a cui si oppongono.
“Occupy Wall Street”, con tutta la sua natura dilettantesca, scalcagnata e inerme, ha invece investito su un asso potenzialmente fortissimo: la pazienza, la disponibilità di tempo, l’indifferenza all’obiettivo immediato. Si sono messi lì, ed erano quattro gatti e per diversi giorni se n’è accorta solo la rete. Come ha detto ieri un manifestante a un giornalista che gli aveva chiesto quanto pensavano di restare: “a oltranza”. Sono, è vero, pochi, poco organizzati, poco credibili e con un’agenda confusa e mal comunicata. Ma, come detto, si sono sistemati in una serie di contesti accoglienti di potenziale interesse (la crisi, le proteste popolari, l’imitazione di notizie precedenti, Manhattan, Wall Street) e hanno tempo. Può darsi che alla loro cosa si uniscano altri, un po’ alla volta, o che qualche accidente la renda improvvisamente magnetica, che monti, o anche che si spenga, o anche che diventino parte del paesaggio. Ma suggeriscono, lo volessero o no, che cambiare le cose, fare da contraltare democratico, raccogliere le forze per far valere i sentimenti popolari, necessita di impegno vero, fisico, di tempo, di sacrificare altro. Di aspettare. Non è una riflessione benvenuta, in tempi che ci hanno viziato facendoci pensare che la rete la rete la rete, e una buona idea cambia il mondo domani solo mettendola in circolo.
Ci vogliono tempo, e costanza, e non li abbiamo più. Ci vuole investire se stessi e sacrificare il resto, ovvero sacrificare se stessi. In alternativa, colpi di scena, imprevisti, accidenti: che capitano, ma è disarmante diventarne dipendenti, no?