L’agguato pakistano agli Stati Uniti
Il New York Times ricostruisce un'imboscata subita dagli americani nel 2007, e sostiene che fu ordita dall'intelligence pakistana
Durante un’audizione della settimana scorsa al Senato degli Stati Uniti, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense Mike Mullen ha accusato i servizi segreti del Pakistan di essere dietro a numerosi attentati contro soldati americani, tra cui quello all’ambasciata americana di Kabul di questo settembre. Oggi il New York Times ricostruisce quello del 14 maggio del 2007, quando un gruppo di soldati americani fu vittima di un’imboscata in Pakistan. Un soldato americano morì, tre rimasero feriti.
I soldati americani erano stati chiamati a Teri Mangal, in Pakistan, per sistemare una disputa di confine con l’Afghanistan. Erano appena usciti da un lungo incontro con i loro ospiti pakistani in una scuola del paese quando furono improvvisamente attaccati da uomini che sparavano dall’interno dello stesso edificio. «L’incidente è stato tenuto nascosto finora perché gli Stati Uniti non volevano mettere a repentaglio i loro rapporti con il Pakistan», ha detto al NYT un ex funzionario delle Nazioni Unite che all’epoca dei fatti lavorava nell’est dell’Afghanistan e che era stato messo al corrente di quanto successo subito dopo.
L’incontro sembrava essersi concluso bene. Nonostante alcuni momenti di tensione, le due delegazioni avevano mangiato insieme, si erano scambiate i numeri di telefono e avevano pianificato di incontrarsi di nuovo. Poi, quando gli americani stavano per andarsene, i pakistani iniziarono a sparare all’improvviso. L’assalto coinvolse diversi uomini e comprese un tentativo di rapire uno dei soldati americani.
«Guardando indietro», ha spiegato al NYT un ex ufficiale americano che ha lavorato sia in Pakistan che in Afghansitan «si è trattato di una classica vendetta: i pakistani cercano sempre di vendicare le perdite subite per colpa delle operazioni militari americane in quelle zone». L’attacco arrivò al termine di un periodo particolarmente intenso per quell’area. In quei mesi i talebani usavano quella regione del Pakistan come rifugio da cui preparare i loro attacchi, contando sull’aiuto dell’esercito e dell’intelligence di Islamabad. Americani e afghani avevano ucciso un gruppo di militanti al confine proprio all’inizio di maggio.
Il governo afgano aveva deciso di costruire più posti di blocco in quella zona, tra cui uno a Gawi, nel distretto di Jaji, uno dei più utilizzati dai talebani per il transito tra Pakistan e Afghansitan. L’esercito pakistano si oppose a questa decisione, sostenendo che il posto di blocco aveva indebitamente occupato il proprio territorio, e rispose riconquistandolo con la forza e uccidendo tredici soldati afghani che lo presidiavano. Nei giorni successivi decine di persone morirono da entrambi i lati, man mano che i due eserciti si confrontavano lungo il confine. Il presidente dell’Afghanistan Hamid Karzai iniziò a parlare della necessità di difendere il confine a tutti i costi. A quel punto intervennero gli americani. Rahmatullah Rahmat, governatore della provincia di Paktia all’epoca dei fatti e presente all’incontro, ricorda così quello che avvenne. La sua ricostruzione è stata confermata anche dall’ex funzionario della NATO che aveva parlato con l’unità americana subito dopo l’accaduto.
All’incontro partecipò una delegazione americana-afghana di dodici uomini. Alla fine dell’incontro entrambe le parti dissero che si sarebbero ritirate dal posto di blocco di Gawi. Poi, proprio quando gli afghani e gli americani stavano salendo nelle loro macchine che li dovevano portare a prendere un elicottero nelle vicinanze, un soldato pakistano iniziò a sparare con un fucile automatico, uccidendo all’istante il maggiore Larry Bauguess. Un soldato americano rispose subito uccidendo a sua volta il soldato pakistano. Ma subito dopo molti altri soldati pakistani iniziarono a sparare dalle finestre della scuola in cui si era svolto l’incontro. Gli americani riuscirono a salire in macchina e scappare, ma poco dopo furono assaliti da una nuova imboscata. A quel punto scapparono a piedi e riuscirono a raggiungere il luogo in cui li aspettava l’elicottero.
Molti di quelli che quel giorno avevano partecipato all’incontro oggi sono sicuri che i pakistani avessero fatto il doppio gioco. Il colonnello afghano Ahmed Kuchai ricorda che i più alti funzionari pakistani presenti se ne andarono qualche minuto prima della fine dell’incontro senza salutare. Un gesto che ora interpreta come il segno che sapevano che cosa stava per succedere. Secondo la sua ricostruzione, sicuramente tra i pakistani si nascondevano anche uomini dell’intelligence in abiti civili. Eppure l’episodio passò senza troppo clamore. Non ci fu mai nessuna inchiesta da parte dell’Afghanistan e in un primo momento le dichiarazioni ufficiali di Kabul e della NATO accettarono la versione pakistana, secondo la quale l’attacco era opera di un unico infiltrato ribelle e che gli altri pakistani iniziarono a sparare soltanto per uccidere proprio lui. La NATO chiese al Pakistan di aprire un’inchiesta soltanto due giorni dopo, ma finora nessuna risposta ulteriore è stata data.