La volta che fecero fuori Tremonti
Quanto previsto in questi giorni dai retroscena dei quotidiani è già successo nel 2004, e allora il nemico giurato di Tremonti era Fini
Da un paio di giorni le pagine politiche dei quotidiani italiani sono piene di ricostruzioni e retroscena che raccontano come il presidente del Consiglio abbia definitivamente perso la pazienza nei confronti di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia. Il 23 settembre Francesco Bei raccontava su Repubblica dei molti nervosismi durante il Consiglio dei ministri, scriveva che Tremonti “ha le ore contate”. Il giorno dopo addirittura Libero titolava sull’esistenza di un “piano anti Tremonti” (il titolo di oggi è “Non si può morire per Tremonti”).
Qui al Post siamo abituati a leggere i retroscena politici come genere a sé, narrativa, pieni come sono di virgolettati ripetuti di bocca in bocca, di dettagliatissime descrizioni di riunioni a porte chiuse, di particolari impossibili da verificare. In questo caso però sembra ci sia qualcosa di più sostanzioso del solito, dietro i retroscena. Ieri Francesco Verderami sul Corriere della Sera descriveva lo scenario a suo dire più probabile.
È nata l’idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l’egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo – come voleva Maroni – si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. […] L’idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.
Il riferimento fatto da Verderami non è casuale ed è interessante. Perché, al di là di quanto succederà o non succederà nelle prossime settimane attorno da Tremonti – da mesi si parla delle insofferenze di molti ministri nei suoi confronti, con nessuna conseguenza concreta – è un fatto che quello che accadde un paio di legislature fa somiglia per molti tratti a quello che potrebbe accadere adesso.
Nel 2001 il centrodestra vince le elezioni, Silvio Berlusconi diventa presidente del Consiglio e Giulio Tremonti diventa ministro dell’Economia. La coalizione di governo è composta da Forza Italia, Alleanza Nazionale, Unione di Centro e Lega Nord. Anche allora, così come adesso, mese dopo mese nella maggioranza nascono nervosismi e insofferenze nei confronti delle politiche economiche di Tremonti e soprattutto del suo comportamento: i colleghi lo accusano di essere informati delle decisioni a cose fatte, chiedono un atteggiamento meno arrogante e una politica economica più incisiva. Il critico più aperto di Giulio Tremonti è Gianfranco Fini, allora leader di Alleanza Nazionale e vicepresidente del Consiglio, che più volte propone di fatto un commissariamento del ministro dell’Economia: l’istituzione di una “cabina di regia” che ne freni e controlli le decisioni.
Dopo mesi di polemiche e qualche sconfitta elettorale, nell’estate del 2004 il Governo discute della cosiddetta “verifica” e lo scontro su Tremonti raggiunge il livello di guardia. Gianfranco Fini accusa Giulio Tremonti di avere “truccato i conti” della Finanziaria dell’anno precedente, a causa di una discrepanza di due miliardi di euro tra quanto annunciato e quanto effettivamente ottenuto. Tremonti dice che quella discrepanza si deve a ragioni contabili e problemi della Ragioneria generale dello Stato, ma si arriva a un vertice di maggioranza, la notte fra il 2 e il 3 luglio del 2004, al quale Fini arriva con l’intera delegazione governativa di AN. Chiede le dimissioni di Tremonti e minaccia altrimenti l’uscita di AN dal Governo. Ottiene quello che vuole. Dopo sei ore di riunione, Giulio Tremonti dà le dimissioni da ministro dell’Economia.
Il resto della storia: Silvio Berlusconi assume l’incarico ad interim e partecipa all’importante vertice dell’Ecofin previsto per i giorni seguenti alle dimissioni di Tremonti, poi viene nominato ministro l’allora direttore generale del Tesoro Domenico Siniscalco. Siniscalco rimane ministro fino al 22 settembre del 2005, quando si dimette per via del mancato appoggio del governo alla sua richiesta di dimissioni di Antonio Fazio, allora governatore della Banca d’Italia coinvolto nel cosiddetto scandalo Bancopoli. Gli subentra proprio Tremonti, che rimane ministro dell’Economia fino al termine della legislatura, nel maggio del 2006.