Si può fare un Partito Pirata in Italia?
Se lo chiede Riccardo Luna, raccontando esperimenti e raccogliendo pareri
Su Repubblica di venerdì si racconta il successo del Partito Pirata alle elezioni berlinesi di domenica scorsa, e Riccardo Luna indaga sulle possibilità di costruire strutture politiche a partire dalla rete in Italia.
Partiamo da un dato certo. Se oggi uno volesse fondare un nuovo partito in Italia non avrebbe bisogno né di soldi né di una sede. Basta Facebook: infatti non c´è nessun altro luogo fisico dove passano quotidianamente, in alcuni casi più volte al giorno, ventuno milioni di italiani (ed è un numero che cresce ogni ora). Sì, c´è la televisione, ma davanti alla tv siamo passivi, sulla rete invece siamo protagonisti. Sulle bacheche dei propri profili o sui tantissimi gruppi tematici organizzati spontaneamente, milioni di persone leggono, comunicano, si informano, condividono. A volte si organizzano per protestare. Il popolo viola, il movimento delle donne “se non ora quando?” e persino il CleaNap che organizzava gruppi di volontari civici per pulire le strade di Napoli dalla spazzatura, sono tutti nati e cresciuti attraverso la piattaforma di social network di Mark Zuckerberg.
Non è una novità. In Egitto e in Tunisia all´inizio del 2011 in questo modo ci hanno mandato a casa dei tiranni secolari altro che storie, a dispetto di quelli come lo scrittore americano Malcom Gladwell che minimizzava il fenomeno rete dicendo che «la rivoluzione non sarà twittata», cioé non arriverà grazie ai messaggini inviati su Twitter. Si sbagliava. Quando Mubarak ha perso il potere, ha mandato un tweet ai suoi ex sudditi: «Ok, me ne vado».
(continua a leggere sul sito del Politecnico di Torino)