E dov’è Veronica?
Al cinema con l'inviato del Post che, travolto da un colpo di fulmine, ne raccoglie una dichiarazione
di Ivan Carozzi
La rivista Alfabeta di settembre ospita un caloroso, volitivo intervento dello scrittore Giorgio Vasta (sulla cosiddetta “generazione TQ”, un gruppo di scrittori italiani di cui si è parlato di recente nelle pagine culturali dei giornali) che cita alcuni brani di un breve racconto di Franz Kafka, Una passeggiata improvvisa. Nel racconto di Kafka una sera un uomo, semplicemente, decide di rompere gli indugi e uscire di casa.
“Quando la sera sembra ci si sia definitivamente risolti a restare a casa […] nonostante tutto, ci si alza presi da un disagio improvviso, ci si cambia la giacca, si ricompare subito vestiti per uscire, e lo si fa senz’altro”
È un invito a cercare quell’occasione imprevista, specie di sera, di notte, che tanto più si offrirà quanto più l’idea di restare in casa ci è sembrata l’unica possibile, in accordo con l’esaurimento delle energie; che tanto più si materializzerà se, per sottrarci a una serata astenica, ci siamo resi protagonisti di uno scatto di volontà e desiderio. Allora l’occasione, di solito, si presenta.
Venerdì, esaurito da una giornata e da una settimana di lavoro, ero sulla strada di casa, deciso a buttarmi con le braccia a croce sul letto, quindi a lasciarmi ingoiare nel piccolo Lete oscuro che si allarga tra le sette e le nove di sera. Poi l’aria calda, la luce illusoria di questo settembre capovolto, che sembra precedere l’arrivo di una nuova estate, mi hanno spinto a cambiare idea e andare al cinema – la scelta è caduta su Carnage, il film di Roman Polanski -, male che vada mi addormento. Dopo essermi messo in coda alla biglietteria, noto poco più avanti, ferma sulla soglia del cinema, la figura reale, vista mille volte sui giornali, dell’ex moglie di Silvio Berlusconi, Veronica Lario. Dura pochi secondi e Veronica Lario scompare. Una ragazza alle mie spalle esclama: “Ho avuto una visione…”. Poi Veronica si riaffaccia, guarda a destra, a sinistra, un po’ spaesata e in allarme, e di nuovo torna all’interno. Così, mentre la coda si sfoltisce, questo piccolo fotogramma da Novella 2000 si ripete quattro, cinque volte. Negli intervalli, prego perché il giochino magico dentrofuori non s’interrompa.
E infatti prosegue. Indossa una giacca e pantaloni di raso lilla. I capelli sono vaporosi e colmi di luce bionda. Una signora matura, ipnotizzante. A occhio, il cono di luce che la Storia le ha puntato addosso, si rifrange in due modi diversi: la rende fragile e magnetica. Arriva un tizio a cui consegna i due sacchetti con gli acquisti fatti, probabilmente, nel bookshop adiacente al multisala, e Veronica scompare; mentre il tizio si allontana, probabilmente, verso l’interno di una macchina parcheggiata.
Carnage si apre con una lunga inquadratura fissa su di una zolla di verde urbano. In sala è buio da un pezzo. Mi accorgo, estasiato dall’avvitamento delle circostanze, che in quel momento, nelle tenebre, Veronica Lario ha appena imboccato la fila C, dove sono seduto, e che il suo corpo, che mi riempie la coda dell’occhio, si sta accostando al posto 13, proprio alla mia destra. Tra me e lei, solo il volto azzurrino dell’amica di lei, Maria Latella, seduta al posto 12. Sullo schermo compaiono i quattro protagonisti del film, di cui rapidamente perdo le tracce. Mi perdo anche, come una zanzara un po’ stordita, tra le sfumature in ombra dell’aura di Veronica, che sembrano diffondersi in infrarossi e pulsare alla periferia del campo visivo destro. Non seguo più il film. I quattro attori, così, diventano masse fisiche elementari, slegate da un racconto coerente, che urtano contro la superficie dello schermo. Divento iperudente, sensibile ad ogni rumorino avvertibile sul mio lato destro, alle vibrazioni, agli scricchiolii profondi che si propagano come spettri e linguaggi esoterici attraverso le imbottiture delle tre poltroncine. Che cos’è questo suono? E quest’altro, ad altezza delle ginocchia? La carta argentata di una caramella? La bombatura di una bottiglia di plastica che si flette sotto la pressione di due dita? Le dita di Veronica o di Maria? Ogni tanto mi riconnetto al film: un vaso di tulipani gialli rovesciato a terra, con violenza, la scena in cui Kate Winslet vomita sul tappeto.
“Adoro queste case americane”, mormora Veronica, in un sussurro che, immediatamente, sistemo tra virgolette e memorizzo. Sono in possesso dell’unico virgolettato attribuibile a Veronica Lario da molto tempo a questa parte: “adoro queste case americane”. In tale condizione di soggiogamento adorante e patente subalternità, che m’impedisce di gustare il film per cui ho pagato il biglietto, riconosco un segno di classe, il vallo sociale e mediatico che ci divide. Al contrario di me, infatti, Veronica può ignorarmi e seguire la storia di Polanski per cui ha pagato il biglietto. Però, è possibile che la sua visione sia altrettanto interrotta dalla percezione della grande folla muta, anonima e azzurrina, raccolta nelle fila alle sue spalle, che potrebbe all’improvviso riconoscerla e dirigere lo sguardo su di lei. Diversamente, non avrebbe aspettato che le luci fossero spente da un pezzo prima di entrare e sedersi. Così come, finito il film, aspetta pazientemente – secondo un protocollo che non deve amare e che sfida – che la sala sia completamente vuota per uscire. Io, Veronica, la folla anonima e azzurrina, ciascuno sottoposto a vincoli, filtri, condizionamenti, che complicano la possibilità di un contatto umano. Nel mio caso di avvicinarmi, nelle ore in cui una nuova emorragia di altri virgolettati e accenni a protesi elettromedicali invade i siti internet, arrampicarmi sopra lo steccato sociale, vestito della mia t-shirt di Bob Dylan, e dirle: “Ciarpame-senza-pudore. Vieni, andiamo a farci un giro”.