Come salvare l’euro
La copertina dell'Economist di questa settimana: quattro cose da fare e due da non fare più per uscire dalla crisi una volta per tutte
L’articolo di copertina dell’Economist di questa settimana contiene una lunga e articolata serie di analisi e proposte su come i governi debbano gestire la crisi economica nell’area dell’euro. L’Economist se la prende un po’ con tutti: con la Germania, che ha promosso una serie di “mezzi salvataggi” nei confronti della Grecia, con la stessa Grecia, che continua a essere artificialmente tenuta in vita quando forse bisognerebbe decidersi a dichiararla insolvente, e infine con le economie “periferiche” in crisi, come la Spagna e l’Italia, che non si decidono a promuovere politiche di rigore economico. Bisogna agire in fretta, dice l’Economist, fare alcune cose rimandate per troppo tempo e evitare di farne altre di cui pure si sta parlando. In ballo c’è non solo l’euro, ma “il futuro dell’Unione Europea e la salute dell’economia mondiale”.
Quattro cose da fare
L’unica strada per fermare la spirale discendente è un supremo atto di volontà collettivo da parte dei governi della zona dell’euro, per elevare una barriera di misure finanziarie per allontanare la crisi e fondare la gestione politica dell’euro su basi più solide.
Per far questo, dice l’Economist, bisogna fare in fretta quattro cose. Per prima cosa bisogna tracciare una linea netta tra i governi che soffrono di un semplice problema di liquidità (come l’Italia, che, semplificando all’estremo, sta principalmente avendo difficoltà a farsi prestare dei soldi) e quelli invece che sono insolventi, ovvero non ripagheranno presumibilmente mai i debiti che hanno contratto in passato. Bisogna smettere di prestare soldi alla Grecia, dice il quotidiano, perché la sua situazione di insolvenza è evidente. L’ultimo accordo per un prestito, quello di luglio, deve essere riscritto. I paesi insolventi devono necessariamente ristrutturare il debito, ovvero rinegoziare o modificare il modo e i tempi con cui pagheranno i loro creditori: questa situazione più grave riguarda, secondo il quotidiano britannico, solamente la Grecia, mentre il Portogallo ci è molto vicino.
La seconda cosa da fare è intervenire sulle banche. Bisogna condurre degli stress test (una serie di verifiche sui conti delle banche per vedere come potrebbero reagire davanti a situazioni di difficoltà) che tengano conto del fallimento di un paese dell’euro, come la Grecia (scenario che per ora si è evitato di considerare). Le banche dei paesi con un’economia meno solida potrebbero aver bisogno di prestiti, e questi devono essere garantiti senza il limite di sei mesi che è posto ora, ma per tutto il tempo necessario. Uno strumento utile a questo scopo potrebbe essere il neonato European Financial Stability Facility (EFSF), il cosiddetto fondo di stabilità.
Allo stesso modo, una volta chiarito quali paesi non sono in reale rischio di insolvenza, bisogna sostenerli senza timidezze e senza mezze misure: dando più soldi e per più tempo. Questo significa andare contro la volontà della Germania, che ha protestato con forza in occasione dei recenti acquisti di titoli di stato italiani e spagnoli da parte della Banca Centrale Europea. Come vedremo più avanti, un fallimento dell’euro non conviene proprio a nessuno.
Terzo: la politica economica generale della zona dell’euro deve superare “la sua ossessione per il taglio delle spese” in favore di “un’agenda per la crescita”. Questo significa, dice il quotidiano: promuovere politiche di liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, privatizzazioni e taglio della burocrazia. Il modo migliore per ridurre il debito pubblico, dice l’Economist, è ottenere il ritorno della crescita economica. Infatti, se il PIL di un paese cresce molto, il debito pubblico, pur rimanendo invariato in termini assoluti, si riduce in termini percentuali (che è la grandezza che interessa di più).
Quarto e ultimo punto, bisogna iniziare a mettere in piedi un nuovo sistema che possa evitare, in futuro, che tutto questo succeda di nuovo. Questo richiederà una serie di nuovi trattati e l’approvazione dei parlamenti e degli elettori degli Stati nazionali. Sicuramente ci vorrà diverso tempo. Uno dei provvedimenti per iniziare ad andare nella giusta direzione potrebbe essere quello di mettere direttamente la Banca Centrale Europea a garanzia dei vari debiti pubblici nazionali, lo stesso principio che sta dietro i famosi eurobond. La mossa, però, ha la controindicazione di deresponsabilizzare gli Stati con minore propensione al rigore nei conti (come l’Italia), motivo per cui è una misura a cui la Germania è molto contraria.
Due cose da non fare più
Finora l’Europa ha fatto due cose, invece: insistere con l’austerità e con le scuse. L’austerità ha significato taglio delle spese e innalzamento delle tasse, entrambe misure depressive dell’economia. Il problema reale dell'”attacco finanziario” contro economie come quella italiana e spagnola non sta in un peggioramento improvviso dei loro conti pubblici, ma nella paura degli investitori che Italia e Spagna possano essere abbandonate a loro stesse e non aiutate nel caso di rischi più gravi, dice l’Economist.
I leader europei infatti hanno negato più volte che la Grecia sia insolvente, cosa che invece dovrebbe essere chiara, e non sono sembrati pronti e uniti nel sostenere le iniziali, arginabili difficoltà di economie molto, molto maggiori come la Spagna e l’Italia. Gli investitori hanno semplicemente proiettato questa reazione incerta nel futuro, e la disponibilità a finanziare il debito pubblico spagnolo e italiano è calata. L’Europa deve quindi distinguere tra casi come quello della Grecia e casi come quello dell’Italia, e nel secondo caso deve promettere sostegno prolungato e adeguato alle esigenze.
Dall’euro non si esce
L’editoriale torna poi sulla questione di un’eventuale uscita dall’euro, di cui si è parlato spesso in questi giorni. Eliminare un paese “debole” come la Grecia dalla moneta unica vorrebbe dire, secondo l’Economist dare un altro colpo durissimo alla sua economia. Ma anche un paese “forte” come la Germania potrebbe valutare un’uscita dall’euro. Qualcuno in Germania inizia anche a parlarne: ad esempio Hans-Olaf Henkel, ex segretario della Confindustria tedesca, che ha proposto che la Germania esca dall’euro insieme all’Olanda, all’Austria e alla Finlandia.
Neppure questa opzione è conveniente, dice il quotidiano britannico. La Germania dovrebbe adottare un “nuovo marco” che, vista la solidità della sua economia, avrebbe un valore molto alto: questo avrebbe un effetto negativo sulle esportazioni, voce importantissima per l’economia tedesca, dato che le merci prodotte in Germania sarebbero molto meno convenienti di adesso per gli acquirenti stranieri. Il valore degli investimenti delle banche tedesche in altri paesi dall’economia più debole diminuirebbe, soffrendo nel cambio con la nuova moneta.
Uno studio recente della banca svizzera UBS ha stimato che il costo di uscita dall’euro sarebbe enormemente alto per qualsiasi paese. La Germania perderebbe una percentuale di prodotto interno lordo del 20-25% nel primo anno dopo l’uscita, e poi il costo si andrebbe più o meno dimezzando di anno in anno. La Grecia, invece, perderebbe il 40-50% del PIL nel primo anno, e poi ancora il 15% per qualche anno successivo.
foto: AXEL SCHMIDT/AFP/Getty Images