Le controrivoluzioni arabe
Time spiega perché probabilmente i protagonisti del nuovo ordine non saranno quelli che hanno fatto la rivoluzione nelle piazze
Le cronache delle rivoluzioni arabe degli ultimi mesi stanno lentamente lasciando il posto alle analisi delle loro conseguenze. Agli entusiasmi iniziali si stanno ora affiancando una serie di considerazioni più ampie e profonde che fanno emergere un quadro decisamente più complesso rispetto a quello auspicato sull’onda degli iniziali successi di piazza. Le rivolte popolari che avevano caratterizzato la prima fase della cosiddetta primavera araba sono state in gran parte sostituite da una nuova stagione di controrivoluzioni – meno visibili ma non meno influenti – che non fanno ben sperare per il futuro di questi paesi, almeno nel breve periodo. Ne parla Time.
I regimi presi di mira dalle rivoluzioni arabe erano prodotti dell’ottimismo di una prima era di rivoluzionari che era venuta subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Un’era che aveva prodotto governi che promettevano di ripristinare la grandezza araba del passato attraverso modernizzazione e giustizia sociale, ma che invece erano ben presto diventati corrotti e autoritari. È stato l’anacronismo di questi regimi a produrre inevitabilmente un’aperta ribellione di massa. In Tunisia e Egitto questa ribellione ha vinto il primo round in maniera spettacolare. Altrove le cose sono da subito state più complicate, laddove, come in Siria, i regimi hanno avuto più tempo e più forza per preparare la loro risposta.
La violenza è esplosa, la minaccia della guerra civile è costante, i regimi stranieri hanno iniziato a prendere parte ai giochi e i poteri centrifughi – settari, etnici, tribali o geografici – hanno iniziato a farsi sentire. Il risveglio arabo è un racconto di tre battaglie unite insieme: popoli contro regimi, popoli contro popoli e regimi contro regimi.
In alcuni casi il comando della situazione è già passato dai protagonisti delle rivolte di piazza a strutture di potere più solide e preesistenti. L’Egitto è forse l’esempio più lampante in questo senso. L’iniziativa politica è passata rapidamente dalla folla di piazza Tahrir ai militari della giunta che è al governo dal giorno delle dimissioni di Mubarak. I resti del vecchio regime, con le sue strutture organizzative ben radicate nel tessuto sociale del paese, sono ora al potere insieme alle forze di sicurezza e ai partiti islamici, che dopo avere passato anni sotto il rigido controllo della polizia di stato, sono ora determinati a prendersi una fetta del nuovo ordine.
Allo stesso tempo sono cambiati anche gli equilibri politici dell’intera regione araba. Le rivolte sono diventate il campo di battaglia di regimi già consolidati come quello iraniano e quello saudita, di potenze emergenti come la Turchia e il Qatar e dei paesi occidentali ansiosi di riconfigurare il loro ruolo approfittando del ridimensionamento dell’influenza degli Stati Uniti.
La sensazione è che quello che succede in qualsiasi luogo possa avere conseguenze dappertutto. La NATO è intervenuta in Libia per cacciare Gheddafi. Iran e Arabia Saudita si sono sfidati in Yemen, Bahrein e Siria. Il Qatar spera di conquistare spazio aiutando le rivoluzioni in Libia e in Siria. La Turchia vede nella rivolta siriana l’opportunità di portare dalla sua parte la maggioranza sunnita, ma al tempo stesso teme le ritorsioni di Damasco e Tehran: cercheranno di infiammare di nuovo la causa separatista dei curdi? Il vero risultato di questo risveglio arabo non sarà determinato da coloro che l’hanno avviato. Le rivolte popolari sono state salutate con gioia, ma non corrispondono necessariamente al tessuto sociale e politico delle comunità tradizionali di quei paesi, dove la religione ha ancora un ruolo centrale e le intrusioni da parte di regimi stranieri sono la norma. Il risultato sarà determinato da altri, più abili nel calcolo degli equilibri politici.
Tra questi ci sono l’esercito e i partiti islamici, spiega Time, che non sono così corrotti come gli esponenti del vecchio regime.
Virtualmente sono ovunque il gruppo più numeroso e meglio organizzato. In Egitto e Tunisia, dove sono stati alternativamente tollerati o repressi, sono attori politici a tutti gli effetti. In Libia, dove sono stati soppressi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella ribellione contro il regime. In Siria, dove sono stati massacrati, sono la componente principale del movimento di protesta. Anni di attesa hanno insegnato loro pazienza e capacità di sopravvivenza. Sono l’unica forza politica con una visione e un programma ancora senza macchia, perché ancora non contaminato dall’esercizio del potere. In più, il loro linguaggio religioso e codice morale rispecchia nella maggior parte dei casi quello della popolazione. Lentamente, gli islamisti potrebbero presentarsi come il miglior alleato dell’Occidente contro i suoi nemici più pericolosi: i jihadisti armati, che hanno il potere e la legittimità religiosa di contenere, e l’Iran, a cui possono contrapporre un modello islamico moderato.
Il vero scontro politico, conclude l’articolo, non sarà quello tra le forze islamiche e forze laiche. In Egitto, Siria, Yemen e Libia, la rivalità più interessanti saranno quelle che emergeranno tra la parte più moderata e quella più radicale del movimento islamico.
Il futuro immediato del mondo arabo nascerà dal complesso intreccio di relazioni tra eserciti, residui dei vecchi regimi e forze islamiche. Tutti con radici, risorse e capacità di condurre i giochi. Anche le potenze straniere cercheranno di avere la loro parte. Gli esiti possibili sono molti, dalla restaurazione del vecchio ordine, alla guerra civile all’islamizzazione, l’unica cosa certa è che quello che si sperava all’inizio – la vittoria dei manifestanti che hanno innescato le rivolte – è quasi certamente impossibile.