Il nuovo governo giapponese è già in crisi
Il ministro del Commercio è stato costretto a dare le dimissioni a una sola settimana dalla nomina, dopo una disastrosa visita a Fukushima
A solo una settimana dall’assunzione del suo incarico, il ministro del Commercio giapponese Yoshio Hachiro è stato costretto a dare le dimissioni per alcune dichiarazioni rilasciate durante una visita a Fukushima. Il nuovo governo giapponese perde subito uno dei suoi pezzi più importanti a pochi giorni dal suo insediamento. Lo scorso 26 agosto il primo ministro Naoto Kan aveva dato le dimissioni dopo mesi di critiche legate alla gestione dell’emergenza dopo il terremoto e lo tsunami di marzo. Al suo posto c’è ora l’ex ministro delle Finanze Yoshihiko Noda, attuale leader del Partito Democratico Giapponese.
Hachiro aveva definito Fukushima «città di morte» durante una visita della settimana scorsa nei luoghi della prefettura più colpiti dal disastro dello scorso marzo. «Sono molto dispiaciuto se le mie affermazioni hanno offeso gli abitanti di Fukushima», ha detto Hachiro durante la conferenza stampa di domenica sera. Il suo incarico è stato affidato temporaneamente al capo di gabinetto Osamu Fujimura, in attesa che venga nominato il nuovo ministro. Le richieste di dimissioni di Hachiro erano arrivate anche da alcuni membri del suo stesso partito.
La notizia delle dimissioni di Hachiro arriva a solo due mesi dalle dimissioni del ministro per la Ricostruzione Ryu Matsumoto, che a sua volta era stato protagonista di alcune disastrose gaffes durante una visita a Fukushima a solo una settimana dalla sua nomina. Per il primo ministro Noda sarà a questo punto ancora più difficile riuscire a governare una coalizione che ha già da tempo iniziato a perdere credibilità. I giapponesi vivono con sfiducia questo nuovo passaggio delle vicende politiche nel paese. Secondo gli ultimi sondaggi, il Partito Democratico Giapponese ha il sostegno del 21 per cento degli elettori, mentre il Partito Liberal Democratico, che ha guidato il paese per decenni, è fermo al 23 per cento. Il restante 46 per cento dice di non sostenere nessuno dei due partiti.