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  • Mercoledì 7 settembre 2011

La costosa lezione dell’Iraq

Al suo primo giorno da ex direttore del New York Times, Bill Keller decide di raccontare cosa pensa dell'appoggio suo e dei "falchi liberal" all'invasione voluta da Bush

** FILE ** In this May 1, 2003 file photo, President Bush gives a "thumbs-up" sign after declaring the end of major combat in Iraq as he speaks aboard the aircraft carrier USS Abraham Lincoln off the California coast. (AP Photo/J. Scott Applewhite, File)
** FILE ** In this May 1, 2003 file photo, President Bush gives a "thumbs-up" sign after declaring the end of major combat in Iraq as he speaks aboard the aircraft carrier USS Abraham Lincoln off the California coast. (AP Photo/J. Scott Applewhite, File)

L’appena ex direttore del New York Times Bill Keller ha pubblicato ieri – nel giorno in cui Jill Abramson prendeva il suo posto – un lungo articolo di riflessioni su uno dei momenti più controversi della sua carriera al giornale: la copertura degli attentati dell’11 settembre e l’impronta da dare alla reazione a quello che era successo. Keller allora era appena passato alla sezione delle opinioni del giornale di cui sarebbe diventato direttore nel 2003, e oggi scrive che allora «l’improvvisa apparente minaccia per il mondo risvegliò un’intenzione bellicosa e rese falchi molti che – me compreso – erano sempre stati diffidenti del riflesso guerriero». Adesso che il suo ruolo non è più quello del direttore che deve “trattenere la lingua” per non far passare le sue opinioni per quelle del giornale, ci può finalmente tornare.

Keller racconta di come lui e molti altri, in tempi diversi (per lui ebbe a che fare anche con un senso protettivo nei confronti della bambina che gli sarebbe nata nove mesi dopo) si siano avvicinati al club “Non ci credo, sono un falco”: Thomas Friedman del New York Times; Fareed Zakaria di Newsweek; George Packer e Jeffrey Goldberg del New Yorker; Richard Cohen del Washington Post; il blogger Andrew Sullivan; Paul Berman di Dissent; Christopher Hitchens, e Kenneth Pollack, l’ex analista della CIA il cui libro “The Threatening Storm” divenne il manuale dei liberal sulla minaccia irachena. Ciò di cui Keller fa una severa autocritica è infatti la complicità nell’appoggio alla guerra irachena, che niente aveva a che fare con gli attentati dell’11 settembre.

«In molti articoli esposi le giustificazioni per deporre Saddam Hussein. C’erano dubbi, soprattutto che non c’era motivo di accelerare ed era meglio aspettare a vedere se sarebbero bastate sanzioni e ispezioni. Come molti falchi liberal, ero combattuto. Pollack dice che lui era 55 a 45 per la guerra, che rende bene l’idea. Ma quando le truppe invasero, invasero con la mia benedizione»

Keller spiega che l’appoggio dei “falchi liberali” non fu irrilevante per l’amministrazione Bush, anzi. E cita il diverso termine con cui li indicò Tony Judt, “gli utili idioti di Bush”.
C’erano tre argomenti a favore dell’invasione, spiega oggi Keller: quello umanitario delle violenze di Saddam sul suo popolo, quello di opportunità sulla crescita della democrazia in una regione che ne aveva bisogno, e quello strategico della minaccia concreta per gli Stati Uniti e gli altri paesi.

Il primo argomento fu molto forte per molti, per ragioni sincere e spontanee ma anche perché “ci innamorammo della nostra moralità”, come ha detto Andrew Sullivan. E Keller oggi non è convinto che la dimensione e l’immediatezza del pericolo sostenesse le ragioni di un’invasione armata. Dello sviluppo della democrazia invece era già diffidente, malgrado le solide opinioni di molti più esperti di lui: soprattutto se promosso dall’amministrazione Bush, che non sembrava avere inclinazioni da piano Marshall. Keller si spinge a sostenere che le recenti rivoluzioni nordafricane debbano i loro risultati – oltre a peculiarità che l’Iraq non possiede – alla mancata partecipazione degli americani e ad avere fatto da sole.

E quindi resta il terzo argomento, quello della minaccia per gli Stati Uniti. Sul quale «sappiamo oggi che il consenso di allora fu sbagliato, costruito in parte su informazioni che oggi abbiamo buone ragioni di credere falsificate». Avremmo dovuto essere più scettici, dice Keller, ma anche con certezze minori sul possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam, il rischio del dubbio sarebbe stato grande: e l’avallo di uno come Colin Powell, che poi si disse ingannato anche lui, pesò molto per i falchi liberal. Alcuni ebbero dubbi, ma «la maggior parte di noi restò un po’ drogata dal testosterone, e forse un po’ troppo compiaciuta di ergersi a combattenti del male e sfidare la caricatura dei liberal mammolette pavide».

Alla fine, i costi dell’invasione sono stati maggiori di quello che chiunque prevedesse a causa di disastrosi errori di esecuzione, afferma oggi Keller, che ne enumera diversi, dalla scarsa visione su cosa fare dopo l’abbattimento di Saddam, allo smantellamento dell’esercito iracheno, all’esclusione del partito Baath dal governo, alla follia di usare esuli squalificati in ruoli chiave. Sono morti 4500 americani (32 mila feriti) e almeno 100 mila iracheni. I costi sono cresciuti di otto volte rispetto alle previsioni, più di 800 miliardi di dollari oggi.

«A questo prezzo, abbiamo comprato un Iraq dove la paura del tiranno è stata rimpiazzata dalla paura di morire a caso. Baghdad resta un labirinto di barriere e posti di blocco, meno minacciosa che negli anni dei massacri del 2006-2007, ma tuttora un posto molto pericoloso in cui vivere. C’è un litigioso parlamento eletto, ma pochi altri fondamenti di una società civile: manca una stampa di opposizione e dei tribunali affidabili. L’economia dipende ancora enormemente dal petrolio e dagli impieghi pubblici. È uno degli stati più corrotti della Terra. E c’è poca fiducia che le cose non peggiorino. Per molti iracheni solo l’occupazione americana impedisce alla violenza settaria di esplodere di nuovo o a un nuovo governo autoritario di prevalere».

Keller aggiunge le conseguenze negative sull’impegno in Afghanistan portate dall’impegno iracheno, e arriva alla conclusione.

«Penso che l’operazione Iraqi Freedom sia stata un colossale disastro. Ma se l’appoggio all’invasione allora sia stato uno sbaglio è più difficile da dire»

Keller dice che molte cose era impossibile saperle, ma conclude che proprio per quello sarebbe servita maggiore umiltà, e non cedere alla tentazione di voler fare qualcosa a tutti i costi, sentirsi dalla parte giusta: «Il presidente Bush sbagliò. E io anche»

«Il rimedio al cattivo giornalismo è più e migliore giornalismo. I giornalisti del New York Times hanno fatto ammenda degli ingenui articoli di prima della guerra con inchieste sulla cattiva intelligence e una coraggiosa e instancabile copertura della guerra e dell’occupazione. Ma quello che il Times scrive getta un’ombra lunga: per anni, le nostre prime storie sulla minaccia irachena (e in misura minore anche quello che gente come me scrisse sulle pagine dei commenti) hanno alimentato il sospetto, soprattutto a sinistra, che non fossimo credibili»

E se oggi sulla Libia l’amministrazione Obama e la stampa, e gli americani, hanno mostrato maggiori equilibrio e moderazione, “bilanciando la volontà di appoggiare la libertà con i costi di diventare parte di un dramma che non comprendiamo del tutto”, è sì perché gli Stati Uniti sentono oggi minacce maggiori e interne sull’economia, «ma per alcuni di noi è anche la costosa lezione dell’Iraq»

(AP Photo/J. Scott Applewhite, File)