Il futuro del Camerun
Un reportage dal paese col più longevo dittatore del mondo, senza nessun accenno di proteste e rivolte popolari, e con una nuova (finta) elezione alle porte
di Giona Salvati
A uno sguardo superficiale, il Camerun può sembrare del tutto simile agli Stati nordafricani le cui cronache hanno dominato il 2011. Come molti dei paesi oggetto di rivolte, infatti, il Camerun si presenta ufficialmente sotto una veste democratica – è una repubblica presidenziale – ma all’atto pratico assomiglia molto di più a una dittatura. Il presidente, Paul Biya, è in carica dal 1982 – il più longevo al mondo, dopo la fine del regime di Gheddafi – e governa ininterrottamente una popolazione che ogni anno Transparency International mette puntualmente nei piani alti della classifica dei paesi più corrotti del mondo. Il Camerun è però una delle poche nazioni africane a non aver mai subito colpi di stato o un rovesciamento violento del potere. E questa caratteristica non sembra destinata a cambiare, nemmeno prossimamente.
Nonostante a novembre si terranno le elezioni politiche nazionali, nel Paese non c’è fermento, non ci sono manifesti elettorali affissi per le strade, non c’è voglia di riscatto né di novità. Questo perché, sostanzialmente, il risultato è già scritto: Paul Biya, che ha 78 anni di cui 29 trascorsi al potere, otterrà una nuova rielezione con percentuali bulgare. Per comprendere bene i motivi della longevità del Presidente e della rassegnazione della popolazione bisogna analizzare due aspetti diversi ma complementari, uno che appartiene alla cultura del Camerun e un altro che invece riguarda la situazione politica internazionale.
L’arte di arrangiarsi
Ormai in Camerun tutti hanno imparato che ci si deve arrangiare da soli. Molti lo sanno da sempre. Molte strade del Paese non sono ancora asfaltate e si viaggia su carreggiate di terra battuta che, puntualmente, si trasformano in fango durante la stagione delle piogge. Nessuno si stupisce che questo disagio non sia comune a tutto il Paese, ma sia presente solo nelle regioni cosiddette “anglofone” – due su dieci – che sono le più trascurate perché il presidente è di provenienza francofona. Nessuno si meraviglia se le pensioni vengono garantite solo a chi lavora per il Governo – basta raggiungere i cinquant’anni di età – e quei pochi posti privilegiati sono accessibili solo agli amici del presidente e della sua famiglia. Ecco allora che entra in gioco la creatività, diciamo: le valigie arrivano in ritardo all’aeroporto? Per riaverle indietro dal deposito bagagli bisogna pagare 20 euro e altrettanti per passare il controllo di sicurezza all’uscita del gate. Senza dimenticare la corposa mancia per il capo della polizia aeroportuale, che ovviamente è necessaria per la tutela della sicurezza.
D’altra parte, se il lavoro non c’è bisogna inventarselo, oppure organizzarsi come si può. Per esempio, c’è una patente di guida necessaria a circolare in tutto il Camerun e una licenza aggiuntiva per guidare nella capitale, Yaoundè; ma se ne si è sprovvisti basta mettere mano al portafoglio per allentare la scrupolosità del controllo poliziesco. E così proliferano tassisti abusivi e la prassi prevede che in macchina si viaggi in 8 o 9 persone, col guidatore seduto sulle gambe di uno dei passeggeri. Persino i servizi strategici, come per esempio scuole e ospedali, sono gestiti quasi esclusivamente dalle comunità religiose, soprattutto nelle regioni periferiche. Lo Stato non finanzia nemmeno in parte queste strutture e quando gli organismi internazionali promettono incentivi economici per l’apertura di nuove scuole, il Governo fa molto presto: espropria quelle costruite e gestite dai religiosi, ci mette l’etichetta statale e intasca il denaro. Così, senza un’organizzazione e un controllo centralizzati, la frammentazione politica e sociale è diventata una delle caratteristiche dominanti in Camerun, dove ci sono più di 250 lingue native differenti e l’unico modo per capirsi tra un villaggio e l’altro è quello di ricorrere al francese o all’inglese, per chi lo sa.
Il governo di Paul Biya
La vita politica non può che essere lo specchio di questo scenario e, di conseguenza, all’opposizione di Biya ci sono una miriade di partiti che tutelano interessi locali e sono spesso in conflitto tra loro. Il presidente, al contrario, può contare su una pletora di politici e uomini d’affari pronti a sostenerlo perché, anche se sono insoddisfatti del suo lavoro, potranno comunque continuare a godere dei privilegi dovuti alla sua vicinanza. Chi invece non sta dalla sua parte, come i sindaci di alcune città che non sono governate dal Cameroon People’s Democratic Movement (CPDM), il partito del presidente, non ricevono alcuna collaborazione e nessun aiuto economico e devono quindi contare solo sulle risorse locali. Chi è al potere, inoltre, ha i soldi e i mezzi per soddisfare le esigenze immediate della popolazione. L’opposizione ha a disposizione soltanto le parole e i progetti ma, in una terra dove si lotta tutti i giorni per mangiare, parlare di sogni e di futuro non paga: le persone sono affamate, e basta elargire poco cibo o del denaro per comprare facilmente voti e fedeltà.
Paul Biya è riuscito a rimanere al potere anche perché la macchina del consenso che si è costruito attorno è molto ben oliata e, quando si avvicina il pericolo delle elezioni, gli è sufficiente mettere le persone giuste al posto giusto. L’organismo governativo che si occupa delle elezioni (ELECAM), infatti, è gestito interamente dal CPDM e, secondo le leggi in vigore, non ha alcuna autonomia finanziaria. È praticamente una sede distaccata del Ministero dell’Amministrazione Territoriale e della Decentralizzazione (MINATD) e non può nemmeno dichiarare ufficialmente i risultati delle elezioni. Lo stesso MINATD, nel recente passato, è stato accusato di aver truccato i risultati delle elezioni a favore di Paul Biya. I principali partiti di opposizione – Social Democratic Front (SDF), National Union for Democracy and Progress (UNDP) e Cameroon Democratic Union (UDC) – hanno più volte provato a protestare, arrivando anche a boicottare le elezioni nel 1997, ma senza ottenere risultati.
Indipendenza e autonomia
Perché dunque non scendere in piazza e protestare contro il governo? Qui entra in gioco il secondo fattore, quello psicologicamente più forte. Il punto di vista del Camerun riguardo quanto accaduto nel 2011 in Medio Oriente e Nordafrica è molto diverso da quello radicato in Occidente. Parlando con molte persone, la convinzione più diffusa è che «se vuoi ottenere l’indipendenza da qualcuno, te la devi prendere da solo», e che in Nordafrica le rivolte siano state guidate o pilotate dall’estero. C’è molta diffidenza verso l’Europa, specialmente nei confronti della Francia che non ha mai smesso di gestire gli interessi nei suoi vecchi domini coloniali. Si dice spesso che in Camerun (ma anche in Costa D’Avorio e in molti altri Stati) “non si muova foglia che la Francia non voglia”. Di conseguenza non c’è alcuno stimolo a scendere in piazza e mettere in gioco la propria vita e il proprio lavoro per combattere una guerra civile considerata inutile. Una rivolta che porterebbe a un cambiamento soltanto nella forma ma non nella sostanza.
Riguardo la Libia, per esempio, le idee che circolano sono molto chiare: come mai Gheddafi, che ha fatto comodo alle potenze occidentali fino a poco tempo fa, improvvisamente è diventato un nemico pericoloso da eliminare? Si parla soprattutto della proposta rete satellitare africana, che abbatterebbe i costi delle telecomunicazioni in Africa e su cui Gheddafi aveva molto investito. Gheddafi aveva investito molti soldi anche nell’Unione Africana e nella costituzione di una banca d’investimenti africana, di una banca centrale africana e di un fondo monetario africano, allo scopo di tagliare definitivamente il cordone ombelicale con l’Europa, in particolare con la Francia, e di cominciare a coniare una moneta diversa dal Franco CFA che permette a Parigi di continuare a mantenere la sua egemonia economica sull’area francofona del continente. Tutte ragioni per cui Gheddafi non era affatto visto male in Camerun, dove oggi molti pensano che le nazioni occidentali abbiano approfittato delle violenze sui manifestanti per liberarsi di un alleato diventato scomodo.
Il futuro del Camerun
Non fosse altro che per ragioni anagrafiche, il potere di Paul Biya attraversa le sue fasi finali. Quello che rimane, però, è un paese dalle istituzioni debolissime e disastrate, abituate a essere piegate alle esigenze personali del presidente. Le opposizioni e la società civile chiedono a gran voce di poter rinviare le elezioni di tre anni per impiegare questo tempo a varare delle riforme costituzionali che possano preparare il terreno a un dopo-Biya più democratico e più regolamentato. La richiesta più urgente e importante è quella di rendere ELECAM, l’ente governativo che si occupa delle elezioni, un ente indipendente e autonomo dalla politica. Difficilmente però queste richieste verranno accolte, perché il CPDM non ha alcun interesse a interrompere la sua egemonia sul paese.
C’è inoltre il problema di organizzare e finanziare le elezioni legislative e comunali che si terranno nel 2012: l’economia camerunense sta attraversando gravi difficoltà e le casse dello Stato non possono permettersi di organizzare tre tornate elettorali in sei mesi. Le elezioni legislative e municipali sono di solito fissate per il marzo successivo alle presidenziali, che di solito si svolgono a ottobre. Per far fronte a queste difficoltà si sta vagliando la possibilità di accorpare le tre consultazioni in una data unica, oppure di chiedere aiuto economico ad alcune fondazioni e sponsor internazionali, che però accetterebbero di intervenire solo nel caso in cui le elezioni avvenissero in una cornice di maggior legalità e trasparenza. L’ultima parola è nelle mani di Paul Biya, che si dice stia preparando da tempo la sua uscita dalla scena politica del Paese. I prossimi sessanta giorni saranno molto indicativi per il futuro di questo paese. Il Camerun farà di tutto per farcela da solo.