Intanto, in Siria
Assad continua a promettere riforme ma dice che le richieste di dimissioni nei suoi confronti "non sono neppure degne di risposta"
Il presidente siriano Bashar al-Assad è apparso in televisione per la quarta volta dall’inizio delle proteste nel marzo scorso per commentare l’esplicita richiesta di dimissioni da parte del presidente degli Stati Uniti Barack Obama, seguìto a ruota dal presidente francese Nicolas Sarkozy, il cancelliere tedesco Angela Merkel e il premier britannico David Cameron. Le potenze occidentali chiedono con sempre maggiore insistenza al regime di Damasco di porre fine alla dura repressione delle proteste per la democrazia, definite da Assad “lotte armate”: secondo le stime di alcune associazioni umanitarie ci sono già stati circa 2.000 morti e 3.000 prigionieri.
Il presidente Assad, come riportato dal Wall Street Journal, ha dichiarato che le richieste delle sue dimissioni da parte di Europa e Stati Uniti “non sono neppure degne di riposta, dato che l’unico popolo che può pronunciare questa domanda è quello siriano”. Anche se nessun paese ha proposto contro la Siria un’azione militare analoga a quella compiuta dalla NATO in Libia, Assad ha poi aggiunto che “un’azione militare contro il nostro paese avrebbe delle conseguenze che le potenze occidentali non sarebbero mai in grado di sopportare”, accusando le “potenze coloniali” di contribuire unicamente a indebolire il paese, invece di dare spazio alle riforme necessarie.
Il presidente siriano nell’intervista ha anche affrontato il tema delle riforme politiche. La Siria è una repubblica solo dal punto di vista formale: dal 1970 la famiglia Assad è titolare della presidenza della repubblica in forma ereditaria. Il Presidente è anche segretario generale del partito Baath e capo del Fronte Progressista Nazionale, alleanza di 10 partiti legali e sotto il controllo dal Baath. I poteri presidenziali, già enormi ai sensi della Costituzione del 1973, sono ulteriormente aumentati dal fatto che dal 1963 è in vigore la legge marziale. In passato il governo siriano aveva già approvato un disegno di legge che avrebbe permesso la formazione di partiti politici, andando così incontro a una delle principali richieste delle manifestazioni di piazza.
Assad durante l’intervista ha annunciato che l’avvio di una riforma costituzionale porterà a elezioni multipartitiche già nel febbraio del 2012. La Siria ha una ruolo chiave nella politica mediorientale. Il paese confina con Israele, Libano, Iraq, Turchia e Giordania, ha un’influenza regionale a causa dell’alleanza con l’Iran e per via del suo ruolo in Libano, dove mantiene una certo potere nonostante nel 2005 abbia posto fine alla sua presenza militare dopo 29 anni. Ha influenza in Iraq e sui gruppi militanti di Hamas, Jihad Islamica e Hezbollah. Il presidente Assad ha dichiarato che l’economia ha iniziato a migliorare nei due mesi scorsi, nonostante le sanzioni imposte dai paesi occidentali che in ogni caso “non saranno in grado di fermare la crescita siriana: dall’alta tecnologia alle risorse primarie, l’alternativa esiste”.
Il governo americano, che aveva già deciso di congelare gli asset della principale banca siriana e della società di telefonia mobile Syriatel, accusate di aver aiutato Siria e Corea del Nord a perseguire i programmi sugli armamenti nucleari, ha vietato le importazioni di petrolio, e l’UE, il più grande acquirente del petrolio siriano, sembra seguire l’esempio statunitense. Intanto la repressione degli oppositori del regime continua. L’agenzia di stato Sana ha detto che sono stati seppelliti ieri i cinque soldati uccisi da uomini armati a Homs, nella provincia meridionale del Deraa.
Come riportato da Al Jazeera, alcuni attivisti hanno raccontato che domenica mattina, intorno alle 6.30, più di 175 persone sono state arrestate nel corso dei raid nella provincia settentrionale di Idlib. Dopo essere state picchiate pubblicamente, sono state bendate e portate via dall’esercito siriano. La Siria, da quando sono iniziate le sommosse popolari, ha espulso la maggioranza dei media indipendenti, rendendo sempre più difficile sapere quel che accade nel paese.