L’eutanasia nel Regno Unito
Il caso di un uomo paralizzato da un ictus ha riaperto la discussione sul suicidio assistito, che è illegale ma con molte accorte eccezioni
Nel Regno Unito il suicidio assistito è illegale e la pena per chi aiuta o incoraggia qualcuno a togliersi la vita può arrivare fino a 14 anni di carcere. Nel 2003 e nel 2006 i laburisti hanno cercato di introdurre una legge per legalizzarlo ma in entrambi casi è stata bocciata dal parlamento. Non è illegale però che una persona cerchi di togliersi la vita, e ogni anno buona parte dei cittadini britannici che vuole praticare l’eutanasia si rivolge all’associazone Dignitas, che dal 2008 gestisce una clinica in Svizzera in cui viene praticato il suicidio assistito. Molti di loro vengono accompagnati nella clinica da parenti e amici, che li aiutano quindi a mettere in pratica il suicidio assistito commettendo un reato.
Finora nessuno di loro è mai stato incriminato, ma nel 2009 Debbie Purdy, una donna malata di sclerosi multipla, ha chiesto a Keir Starmer, una specie di procuratore generale, di stabilire in quali circostanze suo marito sarebbe stato perseguito se l’avesse accompagnata in una clinica in Svizzera e l’avesse assistita durante il suicidio. Purdy aveva detto che se il marito rischiava di venire incriminato sarebbe andata in Svizzera quando ancora poteva farlo con le proprie forze, ma in questo modo avrebbe dovuto praticare l’eutanasia prima di quanto avrebbe voluto. Keir Starmer ha pubblicato un elenco di motivi che rendono più o meno perseguibile chi aiuta qualcuno a togliersi la vita. I compagni, i parenti stretti e i cari amici della “vittima” avranno meno probabilità di venire perseguiti, mentre non c’era alcune attenuante per chi non aveva alcun legame affettivo con il malato – come per esempio i medici. Aiutare e incoraggiare qualcuno a morire restava comunque illegale e sarebbe stato deciso caso per caso se perseguire o meno i presunti colpevoli.
Nel febbraio 2010 il Crown Prosecution Service ha stabilito delle nuove linee guida – valide per l’Inghilterra e il Galles – in merito all’eutanasia. Una persona che ha aiutato un’altra persona malata a suicidarsi è meno facilmente perseguibile se il malato ha preso una decisione chiaramente volontaria e informata, se l’accusato era evidentemente mosso da compassione e se ha cercato di dissuadere l’ammalato dal togliersi la vita. Dal 2010 le indagini sui suicidi assistiti sono condotte da una speciale divisione del Crown Prosecution Service.
Le nuove linee guida non tengono in considerazione i malati disabili o quelli che non hanno qualcuno disposto ad accompagnarli all’estero per porre fine alla propria vita e che in questo modo avrebbero meno diritti degli altri malati. Oggi il Guardian racconta in un articolo di Sarah Boseley la storia di Martin – il nome è inventato – un uomo di 46 anni che è stato quasi totalmente paralizzato da un ictus. Fino a tre anni fa Martin conduceva una vita attiva, giocava a rugby, correva con le macchine ma dopo l’ictus è costretto a rimanere a letto, ha bisogno di continua assistenza e può muovere soltanto gli occhi e un po’ la testa. Comunica indicando con gli occhi le lettere dell’alfabeto sullo schermo di un computer, che poi vengono riconosciute e trasformate in parole da una macchina e riprodotte da una voce digitale. Martin ha chiesto di morire dopo sei mesi dall’ictus ma non ha trovato nessuno disposto ad accompagnarlo in una clinica all’estero. Sua moglie ha detto che se Martin riuscirà a praticare l’eutanasia starà al suo fianco, ma che non ha intenzione di aiutarlo.
Il suo caso è stato assunto dallo studio legale Leigh Day di Londra che ha aperto un’azione legale il cui esito favorevole potrebbe persino cambiare l’attuale legislazione britannica in materia di suicidio assistito. La corte infatti potrebbe dar ragione a Martin e stabilire che ha il diritto non solo di un professionista pagato che lo accompagni in una clinica all’estero, ma anche delle cure palliative di un medico in Gran Bretagna che rendano meno dolorosa la sua morte, nel caso in cui Martin decidesse di porre fine alla sua vita smettendo di bere e mangiare.
Richard Stein, uno dei suoi avvocati, ha spiegato che gli avvocati, i medici e gli psichiatri che lavorano al caso di Martin, possono venire accusati di aiutarlo al suicidio e venire così perseguiti e soggetti a un’azione disciplinare da parte delgi ordini professionali. Stein sta cercando di ottenere una dichiarazione provvisoria dalla corte che garantisca che gli avvocati e i medici non verranno perseguiti o puniti durante la preparazione del caso, ma né il consiglio generale dei medici né il direttore della procura hanno ancora preso una decisione. Se la dichiarazione ad interim venisse promulgata Stein potrà fare il passo successivo e chiedere alla corte di stabilire che un medico può assistere Martin e alleviare il suo dolore con cure palliative nel momento in cui decidesse di smettere di bere e mangiare.
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Foto: Debbie Purdy insieme al marito Omar Puente a Londra, il 30 luglio 2009. (Oli Scarff/Getty Images)