La crisi dei matrimoni in Asia
Nei paesi orientali ci si sposa sempre meno e l'Economist prova a spiegare perché
La solidità delle famiglie e dei matrimoni asiatici è nota e nel tempo è diventata un luogo comune. Lee Kuan Wew, primo ministro di Singapore dal 1959 al 1990, disse che le famiglie cinesi incoraggiano “lo studio, il duro lavoro, la parsimonia e la rinuncia al divertimento nel presente in favore di un guadagno futuro”. Secondo molti studi, la solidità dei nuclei familiari ha contribuito al successo economico dell’Asia negli ultimi vent’anni. Le cose però stanno cambiando, scrive l’Economist questa settimana. Non si parla di crisi della famiglia o di boom di divorzi: in Asia le separazioni sono ancora molto rare. Il problema, però, è che in Asia ci si sposa sempre più tardi e in molti casi non ci si sposa affatto.
L’età media delle nozze nei paesi orientali più ricchi – come il Giappone, Taiwan, la Corea del Sud e Hong Kong – è di 29-30 anni per le donne e 31-33 anni per gli uomini, molto superiore rispetto a quella di qualche anno fa. Un terzo delle donne giapponesi intorno ai trent’anni non è sposato ed è molto probabile che la metà di loro non lo sarà mai. A Bangkok il 20 per cento delle donne dai 40 ai 44 anni sono single, a Tokyo è single il 21 per cento delle donne di quell’età con un’istruzione universitaria, a Singapore il 27 per cento. Non sorprende che le donne asiatiche, soprattutto le più istruite, abbiano una visione negativa del matrimonio. Una donna giapponese sposata di norma lavora 40 ore alla settimana in ufficio e poi passa in media altre 30 ore a fare i lavori di casa, mentre un uomo solo tre. In più ci si aspetta da lei che provveda all’educazione dei bambini, che assista il marito e si prenda cura dei membri anziani della famiglia.
Meno matrimoni significa anche meno bambini, visto che nonostante la crisi dei matrimoni in Giappone ancora nel 2007 solo il 2 per cento dei bambini sono nati da coppie non sposate. Un dato in contrasto con quelli europei, dove la crisi dei matrimoni non ha travolto nella stessa misura la natalità: in Svezia nel 2008 il 55 per cento dei bambini è nato da donne non sposate, mentre in Islanda la percentuale arriva al 66 per cento. Escluse India e Cina, il tasso di fertilità negli altri paesi asiatici è passato dalla media di 5,3 bambini per donna del 1960 all’1,6 di oggi. Questo accade anche perché negli anni i governi asiatici non hanno investito molto in pensioni, welfare e programmi di assistenza sociale, confidando nella tradizione delle famiglie numerose che si occupano dei propri anziani.
Ci sono poi altre conseguenze, meno ovvie. Il matrimonio, infatti, rende gli uomini più adatti alla vita sociale: livelli più bassi di testosterone si traducono in minore criminalità. Un numero inferiore di unioni e rapporti di coppia, invece, spesso determina più violenza. Secondo l’Economist i matrimoni potranno tornare ad aumentare anche in Asia solo grazie a un profondo stravolgimento dei ruoli. I governi non possono far altro che incoraggiare questi cambiamenti: rendere più semplici le leggi sul divorzio, paradossalmente, fa aumentare i matrimoni. Un altro esempio: concedere permessi lavorativi sia per la maternità che per la paternità e offrire un buon programma di assistenza per i bambini. Alla fine siamo sempre lì, e il tema non è nuovo nemmeno a noi europei: all’emancipazione della donna, che passa dalla fornitura di servizi dallo Stato alle famiglie.