La crisi italiana vista da fuori
La bancarotta è tutt'altro che da escludere e avrebbe conseguenze disastrose, scrive Foreign Policy, ma la cura può funzionare
La scorsa settimana il governo italiano ha annunciato, sotto la spinta delle istituzioni economiche europee, una nuova manovra economica per affrontare la crisi e ridurre il forte indebitamento dell’Italia, che rischia di portare lo Stato al fallimento. Nonostante gli annunci, i piani del ministro dell’Economia Giulio Tremonti e della maggioranza non sono ancora del tutto chiari, la manovra sarà discussa dal Parlamento e numerosi analisti hanno mostrato forte scetticismo nei confronti della nostra capacità di tirarci da soli fuori dai guai. Per non parlare dei mercati, che per il momento non sembrano affatto rassicurati dalle iniziative del governo. Le analisi formulate all’estero non sono affatto clementi e i più pessimisti temono che sia troppo tardi per intervenire, come spiega l’economista Uri Dadush su Foreign Policy.
Il problema è che l’Italia potrebbe essere troppo grande per essere salvata. Il paese ha dovuto affrontare tassi di interesse superiori al 6 per cento fino a quando la Banca Centrale Europea (BCE) è intervenuta: se la Grecia e l’Irlanda ci insegnano qualcosa, l’Italia potrebbe ritrovarsi con prezzi troppo alti sui mercati internazionali del debito nel giro di pochi mesi. Se l’Italia dovesse soccombere, la Spagna quasi sicuramente farebbe la stessa fine. La Francia, il cui spread nei confronti della Germania è aumentato notevolmente nell’ultimo mese – potrebbe seguire la medesima sorte.
Dadush stima che l’European Financial Stability Facility (EFSF), il fondo creato dai paesi che fanno parte dell’eurozona per affrontare la crisi, non avrebbe risorse a sufficienza per salvare l’Italia. Per usare formule diventate familiari negli ultimi tre anni, l’Italia non sarebbe too big to fail ma sarebbe too big to bail. Per finanziare il nostro paese nei prossimi tre anni, alle condizioni attuali occorrerebbero almeno il doppio dei fondi fino a ora messi a disposizione. Per un salvataggio dell’Italia servirebbero almeno 974 miliardi di euro e circa la metà per quello della Spagna. Le due cifre combinate sono pari a un quarto del prodotto interno lordo dei principali paesi facenti parti dell’eurozona. Oltre a essere una spesa enorme, ridurrebbe sensibilmente la capacità dei paesi che adottano l’euro di gestire il loro debito. L’esperienza con la Grecia, su scala minore, ha già dato avvisaglie di questo genere e gli Stati europei con le economie più solide non vogliono rischiare.
Nello scenario migliore, l’Italia potrebbe farcela adottando le riforme di cui la classe politica e dirigente parla da anni senza averle mai realizzate. L’impegno dovrebbe essere orientato principalmente a contenere il debito e a mantenere il pareggio di bilancio. Con le giuste riforme, potremmo raggiungere un rapporto tra debito e Prodotto interno lordo (PIL) pari all’85 per cento in un decennio, un passo avanti importante considerato che nel 2010 era al 119 per cento. Mercati e analisti sono però scettici sulla possibilità di riuscire a compiere passi avanti così importanti in pochi anni. Secondo Dadush il nostro paese dovrà fare i conti con tre possibili rimedi per superare la crisi, dolorosi e con diverse controindicazioni.
1. Monetizzare il debito
La BCE dovrebbe farsi carico dell’acquisto del debito italiano in quantità indefinita, trovando le risorse per farlo con l’emissione di nuova moneta. L’impegno dell’istituzione europea e il successo delle riforme in Italia potrebbero tranquillizzare in fretta i mercati, rendendo la spesa per la BCE molto più bassa. Se però le cose andassero storte, la BCE si ritroverebbe ad acquistare titoli di Stato italiani dal valore molto dubbio per diversi miliardi di euro. Sarebbe una scommessa enorme, che avrebbe ripercussioni in tutta l’area della moneta unica con un cospicuo aumento dell’inflazione, che colpirebbe tutti gli europei per mettere in salvo l’Italia. Inoltre, ben coperti dalla BCE, quelli che ci governano potrebbero essere meno incentivati a fare riforme strutturali.
2. Obbligazioni europee
L’istituzione di una unione fiscale vera e propria in Europa consentirebbe ai governi di finanziarsi anche con strumenti come le obbligazioni europee. I governi potrebbero mettersi d’accordo per ottenere metà dei loro nuovi fondi dalle obbligazioni. Se così l’Italia non fosse in grado di ripagare parte del proprio debito, altri paesi potrebbero provvedere, avendo voce in capitolo nella politica fiscale del nostro paese e viceversa. Il sistema ha il merito di essere trasparente e non farebbe decadere l’incentivo ad approvare nuove riforme. Potrebbe essere la soluzione migliore, ma i paesi con economie solide non lo vedono di buon occhio perché comporterebbe tassi di interesse più alti. La Germania ha fatto capire più volte di non essere d’accordo con questo sistema se non nel lungo periodo e dopo la nascita di una Unione politica vera e propria.
3. Aiuti internazionali
Il Fondo Monetario Internazionale e i membri del G20 potrebbero accollarsi il costo del salvataggio dell’Italia e avrebbero, del resto, molti interessi per farlo – a partire dalla necessità di scongiurare un effetto a catena e un peggioramento della crisi a livello globale. Una simile opzione sarebbe più politica che economica e avrebbe un costo significativo per l’Europa in termini di controllo delle proprie politiche all’interno dell’Unione. Il G20 potrebbe imporre regole chiare e da seguire con impegno da parte dell’Italia per ottenere gli aiuti, ma una simile opzione sottrarrebbe controllo agli altri Stati dell’Unione. A partire dai più forti economicamente, come Francia e Germania.
In realtà, conclude Foreign Policy, se i problemi dell’Italia dovessero ancora peggiorare sarebbe necessario un mix di tutte e tre le opzioni per superare la crisi e scongiurare il fallimento. Molte delle misure fino a ora adottate rispecchiano del resto le tre soluzioni, cosa che suggerisce come la terapia per curare il nostro paese sia stata sostanzialmente già avviata.
Questa terapia combinata è stata già messa in campo a un livello molto più grande di quanto molti osservatori abbiano notato: attraverso i sistemi di emergenza della BCE a sostegno delle banche e per l’acquisto dei titoli di Stato, tramite l’emissione di bond garantiti da parte dell’EFSF e il ricorso al Fondo Monetario Internazionale in soccorso della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo. Ma man mano che la crisi si espande verso altre grandi economie dell’Europa, potrebbe essere necessario aumentare il dosaggio.