La lezione di Black Hawk Down
Che cosa ci ha insegnato la missione umanitaria degli anni Novanta Restore Hope per gestire l'attuale crisi in Somalia, colpita dalla carestia
La carestia che sta colpendo in queste settimane l’Africa orientale ha già fatto decine di migliaia di vittime e interessa un’area in cui vivono circa dieci milioni di persone. Uno dei paesi più colpiti è la Somalia, una nazione in cui manca da circa vent’anni un governo stabile, un paese con un territorio diviso tra clan, signori della guerra e milizie islamiche, e dove alcune zone hanno dichiarato da tempo l’indipendenza dal governo centrale. Da quindici anni, per mancanza di dati, la Somalia non compare neppure più nella classifica dei paesi del mondo in base all’Indice dello Sviluppo Umano, dove ha occupato una delle ultime posizioni fino al 1996.
John L. Hirsch, uno dei consiglieri della missione statunitense nel paese nei primi anni Novanta, scrive su Foreign Policy che da quell’intervento si può imparare qualcosa su come gestire la crisi attuale. La lezione da imparare è politica, e non militare.
Un po’ di storia
Fino al 1991, la Somalia era governata da una giunta militare comandata dal dittatore Mohammed Siad Barre, che aveva preso il potere nel 1969 e aveva dichiarato la Somalia uno stato socialista. L’antica fedeltà ai clan e la pressione dei gruppi armati, soprattutto nel nord del paese, resero la situazione del paese sempre più instabile nel corso degli anni Ottanta, e Siad Barre fu costretto a dimettersi mentre una coalizione di forze ribelli al comando di Mohamed Farrah Aidid assaltava la capitale Mogadiscio.
Una serie di interventi internazionali approvati dall’ONU, con un ruolo fondamentale assunto dagli Stati Uniti, iniziarono nel dicembre 1992. Anche in quel periodo una carestia stava colpendo il paese, già rovinato economicamente e percorso dai gruppi militari. L’operazione “Restore Hope”, il nome in codice della missione statunitense che guidava il contingente internazionale, iniziò bene, ma si interruppe bruscamente all’inizio del 1994, pochi mesi dopo una violenta battaglia a Mogadiscio.
Ai primi di ottobre del 1993, infatti, i soldati statunitensi si erano trovati impegnati in scontri a fuoco molto intensi con i miliziani di Aidid, iniziati dopo un tentativo fallito di catturare Aidid. L’episodio centrale, che sarebbe stato poi raccontato nel film di Ridley Scott “Black Hawk Down” nel 2001, fu l’abbattimento di un elicottero UH-60 Black Hawk da parte dei miliziani, che lo colpirono con un razzo. Negli scontri di Mogadiscio vennero uccisi un totale di 18 soldati statunitensi e molti dei loro corpi vennero trascinati per le strade della città da soldati fedeli a Aidid e da civili.
Il successo dell’operazione Restore Hope
I soldati statunitensi lasciarono la Somalia senza aver raggiunto l’obiettivo di ristabilire l’ordine, ma, ricorda Hirsch, l’intervento non fu un fallimento completo, e nella sua fase iniziale garantì aiuti umanitari a decine o centinaia di migliaia di somali.
Molti osservatori hanno tratto dalla Somalia la lezione sbagliata: che tutti gli interventi in luoghi dove regna l’anarchia sono troppo rischiosi, anche se bene intenzionati. Oggi, davanti a una nuova catastrofe nel Corno d’Africa, dobbiamo trarne una lezione migliore. Un altro intervento militare non è la risposta, ma trattando la carestia come un problema politico, con soluzioni possibili, piuttosto che come una causa persa, gli Stati Uniti possono aiutare a fermare una situazione drammatica prima che diventi ancora peggiore.
Prima che arrivassero i militari della forza internazionale, infatti, la crisi umanitaria causata dalla carestia venne arginata attraverso colloqui tenuti direttamente tra rappresentanti diplomatici e militari degli Stati Uniti e i signori della guerra, che permisero di riaprire alcune strade e di lasciar passare gli aiuti. I soldati degli Stati Uniti mantennero l’uso della forza limitata ai casi di legittima difesa.
L’arrivo dei militari della missione ONU, invece, modificò la gestione della situazione e la fece precipitare: la missione ONU operava senza comunicare i propri programmi o trattare le mosse con i signori della guerra, portando in poche settimane a sanguinosi confronti militari.
La situazione di oggi
Il dialogo e la mediazione devono essere fondamentali anche nella risoluzione della crisi attuale, che non si deve limitare a fare arrivare gli aiuti. Un intervento militare troppo deciso è finito male negli anni Novanta e oggi è ancora meno possibile, anche perché c’è una complicazione in più: al posto dei signori della guerra, interessati soprattutto ad accrescere il potere della propria fazione, ci sono ora le milizie di Al-Shabaab, che ha una fortissima connotazione ideologica islamista e antioccidentale.
Il recente ritiro di Al-Shabaab da Mogadiscio, dice Hirsch, potrebbe essere il momento giusto per cercare spazi di dialogo, magari con l’aiuto di organizzazioni islamiche disposte a fare da mediatrici e identificando gli individui più moderati e aperti con cui aprire una trattativa. Il fine a breve termine deve essere quello di far arrivare gli aiuti umanitari, soprattutto nelle zone del sud del paese più colpite, senza dimenticarsi però dell’obiettivo a medio e lungo termine:
La lezione dell’Operazione “Restore Hope”, e del conflitto balcanico che è venuto dopo, è che le crisi umanitarie e dei rifugiati non possono essere tenute separate dalle loro cause politiche. La comunità internazionale, mentre si occupa dell’attuale crisi in Somalia, deve avere chiaro il suo fine di ottenere una stabile soluzione politica che possa fondare la ripresa economica e lo sviluppo.
foto: AP Photo/Kathy Willens