La violenza del niente
Adriano Sofri sui saccheggi in Inghilterra e "una guerra che non vuole né merita il nome di ribellione"
Il commento di Adriano Sofri ai fatti di questi giorni a Londra e in molte altre città inglesi, pubblicato su Repubblica.
Ci sono due immagini che bastano a regolare il conto con l’Inghilterra messa a ferro e fuoco, salvo mettersi poi a ragionarci sopra e chiedersi per chi suona quella campana.
Sono state messe in dubbio ambedue, e anche questo è un segno dei tempi: tutto è immediatamente visibile e trasparente, di tutto si sospetta la manipolazione. C’è la silhouette, davvero trasparente, della giovane che si butta giù dalla sua casa in fiamme, con le braccia che si protendono ad afferrarla dalla strada, e la memoria di tutti corre al rallentatore del corpo che rotola in aria giù dalle Twin Towers. E c’è il video del ragazzetto insanguinato rimesso in piedi e barcollante, con gli incappucciati soccorritori – chiamiamoli così – che frugano nel suo zaino, tirano fuori l’iPad e se ne vanno baldanzosi. Non è detto che il ragazzetto sia a sua volta un manifestante, e che sia stata la polizia a colpirlo, se no alla ripugnanza per i rapinatori si potrebbe almeno accompagnare la simpatia per lui, doppia vittima. A guardarle da lontano, e a farsele raccontare da chi c’è, le imprese dei razziatori inglesi stentano molto a offrire una qualche ragione di simpatia.Certo, sono giovani, molti minorenni, ma anche questo non è più un argomento persuasivo, per i più. E sono poveri, derelitti e disperati, o forse nemmeno disperati, che è il contrario di chi spera in qualcosa, mentre questi probabilmente non disperano in niente. Niente in cui sperare o disperare. L’uccisione – criminale, a quanto pare – di un giovane di colore da parte della polizia ha fatto da scintilla. Non era poco, ma l’incendio ha una ben altra portata. Si sono accorti di poter razziare e devastare su una scala colossale, e ci si sono avventati, per bande diverse e improvvisamente emule e alleate, in una guerra che non vuole né merita il nome di ribellione.
“Brucia ragazzo, brucia”: lo slogan è vecchio, modernissima è questa slogatura di tutti i legami sociali, questa impennata delle vendite di manganelli e mazze da baseball dichiarata da Amazon, questa convocazione via Blackberry, questi racconti orgogliosi di reduci: «Sono tornato con un plasma da 42 pollici e una Playstation 3». Arraffa, ragazzo, e spacca. Tanto, non è tuo, e non lo sarà mai. Questi davvero non hanno da perdere niente, nemmeno le catene. Le minoranze “etniche” hanno un ruolo forte, ma non sono la spiegazione. Si è parlato di tensioni fra turchi e neri, macché: semplicemente, i turchi di Stoke Newington vanno in strada con le spranghe a difendere i loro negozi e le loro auto, mentre i gioiellieri di Hatton Garden chiudono e affidano anima e diamanti alla polizia. La quale, reduce anche lei dai disastri del caso Murdoch, è colpita dai tagli di bilancio quasi quanto i sussidi di disoccupazione e i centri giovanili.
Anche della disfatta del multiculturalismo sarebbe meglio smettere di blaterare, perché nella sua accezione sensata è un argomento ratificato, e nell’accezione digrignante era la bandiera di un ripugnante assassino di ragazzi norvegesi. Qui non c’è né il “movimento” degli studenti, indigeni e stranieri, contro il raddoppio delle tasse universitarie, né il terrorismo incubato nel Londonistan. E nemmeno, salvo errore, qualcosa di paragonabile alla protesta sociale e politica greca o portoghese, agli indignati spagnoli, e ora, finalmente, a quella di Tel Aviv.