La notte che hanno ucciso Osama bin Laden
Il New Yorker pubblica una lunga ricostruzione della ricerca culminata il primo maggio scorso
Osama bin Laden è stato ucciso nella notte del primo maggio da un commando di Navy SEALs, le forze speciali della marina statunitense nel suo rifugio ad Abbottabad, in Pakistan. L’ultima localizzazione del leader di Al Qaida risaliva al 2001 nella zona di Kandahar, in Afghanistan. In un reportage pubblicato sul numero di questa settimana il New Yorker ripercorre le fasi della preparazione e attuazione della missione che ha permesso agli Stati Uniti di uccidere bin Laden.
Nell’agosto del 2010 la CIA riuscì a individuare il “corriere” di Osama: Au Ahmed al-Kuwaiti. L’uomo, proprietario di un SUV bianco con un rinoceronte disegnato sul tetto, viveva in un complesso residenziale – tre case, una pensione, qualche altro edificio – a Abbottabad, una località 50 chilometri a nord di Islamabad, sede di un’accademia militare. LA CIA mise gli edifici sotto sorveglianza satellitare: Kuwaiti e suo fratello andavano e venivano da una delle abitazioni, ma un altro uomo, quello del terzo piano, non usciva mai di casa. Qualcuno alla CIA iniziò a sospettare si potesse trattare di bin Laden.
Alla fine del 2010 Leon Panetta, il direttore della CIA, mise in campo la possibilità di un attacco militare. In un primo momento si ipotizzò una collaborazione con le forze armate pakistane, ma Obama decise che era meglio tenerle all’oscuro di tutto. “C’era la possibilità che i pakistani non avrebbero saputo mantenere il segreto per più di un nanosecondo”, riferisce un consigliere del presidente.
Nei tre mesi successivi Panetta e William McRaven, capo del Joint Special Operations Command, il comando per le operazioni delle forze speciali Usa, idearono un piano, anzi, due. Robert Gates, il segretario della difesa, non era d’accordo con l’idea di un raid notturno dei militari. Troppo pericoloso per i ragazzi. Meglio radere al suolo l’intero complesso. Ma Obama non fu dello stesso avviso e ordinò a McRaven di organizzare l’attacco aereo. Il 10 aprile scorso la squadra formata da una dozzina di militari scelti delle forze speciali della marina, un traduttore e un cane di nome Cairo si trasferirono in una foresta della North Carolina per allenarsi all’attacco.
Il 18 aprile la squadra si spostò in Nevada per un’altra settimana di addestramento. Lì le condizioni atmosferiche e il territorio sono più simili a quelle del deserto pakistano. Per l’assalto al rifugio di bin Laden i militari si sarebbero serviti di due elicotteri MH-60 Black Hawk. Il primo, con a bordo l’interprete e il cane, sarebbe atterrato poco distante dal complesso residenziale. Dopo essersi calata velocemente con una fune, la prima squadra avrebbero dovuto tenere lontano gli abitanti del quartiere. Prima con le buone, con l’aiuto dell’interprete. Se necessario con metodi più decisi. Il secondo elicottero si sarebbe occupato dell’assalto all’edificio dove al terzo piano si riteneva fosse nascosto bin Laden.
Si arriva al 26 aprile e il commando è pronto. Ancora per qualche notte non ci sarà la luna piena: il buio è una condizione essenziale per l’attacco aereo. Sabato il cielo è troppo nuvoloso. Sabato pomeriggio Obama parla al telefono con McRaven. Domenica è il giorno ideale. Il primo maggio Obama cancella tutti i suoi appuntamenti e si collega in teleconferenza con Panetta, al quartier generale della CIA, e McRaven, in Afghanistan. Il presidente vuole seguire l’operazione passo dopo passo. Alle due, dopo nove buche a golf, Obama ritorna alla Casa Bianca. I due Black Hawk decollano da Jalalabad trenta minuti dopo. Prima delle quattro del pomeriggio, ora di Washington, gli elicotteri sorvolano Abbottabad.
La squadra del primo elicottero si cala con una fune e si apposta fuori dalle mura del complesso. Pochi minuti dopo anche la seconda squadra tocca terra. Kuwaiti è il primo ad accorgersi dei militari. Corre a prendere un fucile, ma quando esce di casa per fare fuoco viene ucciso. La squadra di nove uomini è dentro il complesso residenziale e si divide in tre squadre da tre. Nel buio usano guanti e maschere per la visione notturna. Appare un altro uomo pronto a difendersi con un Kalashnikov. Lui e la moglie, che si era gettata davanti a lui per proteggerlo, vengono uccisi.
Fuori dalle mura del complesso è tutto tranquillo. I vicini hanno sentito gli elicotteri, gli spari, ma nessuno è uscito di casa. La seconda squadra perquisisce il primo piano. Non c’è più nessuno. Sulle scale un altro uomo, Khalid, viene ucciso. Cinque uomini adulti vivevano nella casa. Tre sono stati uccisi. Hamza, il figlio di Osama, non era sul posto. Gli americani spalancano la porta di una camera da letto. Due delle mogli di bin Laden sono davanti a lui per difenderlo con i loro corpi. Potrebbero indossare dei giubbotti pieni di esplosivo. I soldati le spostano e fanno fuoco una prima volta. Dopo un secondo colpo, alla testa, Osama bin Laden è morto.
Uno dei militari trasmette via radio il messaggio in codice “Per Dio e per il paese, Geronimo Geronimo, Geronimo”. E dopo una pausa, aggiunge, “Geronimo E.K.I.A.”. “Enemy killed in action”, nemico ucciso durante l’azione. Il corpo di Osama viene portato via in una busta di plastica. Due campioni di midollo e alcuni tamponi per la prova del DNA vengono presi dal cadavere: serviranno a stabilire con certezza l’identità. Sono le tre quando l’elicottero superstite (l’altro si è danneggiato durante l’atterraggio ed è stato bruciato dai militari) torna alla base di Jalalabad. Il cadavere di Osama viene gettato poche ore dopo al largo del mar Arabico.