“Le regole di Peppe”
Le cinque cose che Giuseppe D'Avanzo disse ai suoi colleghi del Corriere prima di tornare a Repubblica, raccontate da Marco Imarisio
Marco Imarisio su Corriere.it ricorda così Giuseppe D’Avanzo, morto ieri.
La prima volta che ho visto Peppe era in questo stanzone, 1997, la redazione Cronache italiane, dove sto scrivendo adesso. «I giornali bisogna viverli, bisogna respirarli» era la sua spiegazione a chi gli chiedeva i motivi di quella scelta, lui che era già il più bravo di tutti, aveva l’ufficio lassù in alto e invece stava in mezzo a noi, redattori e capiservizio. Ora che non c’è più, e che tante sono le cose che verrebbe da dire, da ricordare, tanti i discorsi interrotti che dovevano essere ripresi, a me vengono in mente solo poche immagini. Tirana, 1999. Peppe era appena ritornato da alcuni giorni trascorsi nel Kosovo, a quel tempo proibito, impossibile entrare. Si era precipitato al nostro campo base in uno stato febbrile. «Sei stanco, Peppe?» «Devo scrivere, devo scrivere, ciao». Chiamò molte ore dopo. La stanza era nube di fumo, a stento si distingueva la sua sagoma. «Leggi» mi disse. Il suo reportage era sterminato, una quindicina di cartelle come minimo. «Che c’è, non ti piace?» «No Peppe, forse c’è qualche taglio da fare…» Annuì: «Tagliamo insieme». La trattativa fu lunga, difficile. Ogni periodo cancellato era come uno schiaffo in faccia. Peppe, solo ora mi accorgo di non averlo mai chiamato con il suo nome per esteso, era così. Era esagerato, aveva un fuoco dentro che non si spegneva mai. Non potevi rilassarti, se lavoravi con lui, non potevi distrarti. Lui si era consegnato a questo, a un giornalismo da vivere e respirare come una missione di vita, come qualcosa che giustifica una vita intera. Era viscerale, umorale, era assoluto. Ma era anche un uomo molto generoso. Sapeva esserlo, sapeva dare senza chiedere nulla indietro.
Un pomeriggio di maggio del 2000, intorno alle 19 entrò nello stanzone con la sua voce stentorea. «Oggi non lavorate più, venite con me». Ariel, il caporedattore, non oppose resistenza, sapeva che sarebbe stato inutile. «Andiamo al bar» disse. Ci fece sedere al Radetzki, poco distante da via Solferino e ordinò da bere per tutti. Ci spiegò che lasciava il Corriere, dove era arrivato tre anni prima, per tornare alla sua casa madre, a Repubblica. Poi fece una cosa che nessuno fa mai. Cominciò un lungo monologo, nel quale condensava i suoi consigli. Che lui aveva deciso di donare a noi, giovani giornalisti. Non è pratica comune, in questo mestiere che divide e non unisce. Le regole di Peppe, le ho chiamate per anni: al mattino fai cinque telefonate a cinque fonti diverse, a persone che ti possono dare notizie, non importa quali, basta che ti spieghino come stanno le cose; studia, non smettere mai di studiare, appassionati ai problemi, falli tuoi; rispondi, devi rispondere sempre quando il giornale ti chiama; ricordati che questo lavoro lo devi vivere con passione, ogni benedetto giorno, e metti passione in quello che scrivi, coinvolgi il lettore, butta sempre il cuore in quel che fai. Altrimenti, disse, non ne vale la pena, non è giornalismo. «E adesso via, si torna in redazione».