Matteo e Matteo, legalmente sposati altrove
Il racconto e le foto dei due bolognesi che hanno avuto il matrimonio riconosciuto dallo stato di New York
di Matteo Giorgi
Io da piccolo non ero certo quello che sognava il grande matrimonio in stile hollywoodiano con migliaia di invitati (né tantomeno, come alcuni potrebbero pensare, che sarei stato quello in abito bianco con tanto di chilometrico velo e strascico). Eppure quando si ama una persona, da cosi tanto tempo e cosi appassionatamente, giunge il momento di assumersi le proprie responsabilità.
E spesso le responsabilità ti prendono quasi per caso, quando meno te lo aspetti.
L’idea iniziale era quella di fare un matrimonio simbolico a Las Vegas, durante un lungo viaggio negli Stati Uniti. I figli della mia migliore amica di 16 e 11 anni avevano già organizzato tutto: dalla cappella fino agli anelli. L’unica indecisione era se sposarci vestiti da Elvis o meno.
Ma ovviamente sarebbe stato un matrimonio finto, perche il Nevada, come la maggior parte degli stati americani, non riconosce il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Poi è arrivato lo stato di New York, a dare la sua lezione di civiltà al mondo, e un’idea a noi. Il 24 giugno il senato dello stato approva a maggioranza la legge che consente il “same sex marriage”. E allora comincia a balzarci in testa questo inatteso progetto: ma se lo facessimo davvero?
I nostri amici newyorkesi hanno preso nei giorni dopo l’approvazione della legge le prime convulse informazioni (in Italia intanto si stava ancora a discutere e a bocciare l’aggravante omofobica in caso di reato e a confrontarsi con pareri della caratura di quelli di Giovanardi e Borghezio, e cito solo uomini perché sono un gentiluomo) . Noi intanto dall’Italia ci prodigavamo per le fedi in tempi record. Poi con il nostro arrivo a New York e grazie all’efficienza della burocrazia cittadina, è cominciata la sobria e insieme trionfale marcia verso il matrimonio.
Per prima cosa abbiamo compilato una semplicissima richiesta on line. Poi ci siamo recati al “marriage bureau” del “city clerk” di Manhattan (che nei primi 3 giorni, per esaudire tutte le richieste, ha fatto orari straordinari ed è stato aperto anche di domenica) e un non troppo convinto impiegato ha dato l’ok burocratico al nostro marriage. Il momento più divertente è stato quando ci ha chiesto “qualcuno di voi due vuole cambiare cognome e prendere quello dell’altro?”. Abbiamo ritenuto di spiegargli che chiamandoci entrambi Matteo raggiungere un tale livello di identità – io e te, una sola persona – sarebbe stato forse troppo.
La legge locale, poi, consente di sposarsi ovunque. O meglio, il comune ti mette a disposizione una saletta ed eventuale officiante di servizio, ma la situazione – con tanto di bouquet a 20 dollari – ci pareva poco affascinante.
E allora, visto che i nostri amici Letizia e Steve, dai quali siamo ospiti, risiedono nella magnifica Atlantic Beach, ci siamo detti: sposiamoci sulla spiaggia (alcuni ci hanno accusato di aver voluto copiare Brooke e Ridge, ma la verità è che le mie memorie adolescenziali mi portano al telefilm Melrose Place, una sorta di Beautiful ante-litteram dove per mancanza di budget tutti si sposavano “on the beach”). Il comune di Atlantic Beach ci ha fatto sapere di essere molto felice di ospitare un simile evento e per l’occasione ha lasciato la spiaggia aperta e ci ha addirittura concesso di portare lo champagne per il brindisi (qui non puoi nemmeno girare per strada con una birra aperta che ti multano dopo un secondo, tanto per capirsi).
E cosi siamo arrivati al “big day”: la mattina shopping per il buffet in questi enormi mall americani (il fatto che nei supermercati si venda di tutto, dalle vitamine alle bare, mi ha distratto per almeno un paio d’ore), scrittura delle promesse, arrivo degli ospiti, preparazione e tutti al mare, con contorno di amici che si erano radunati al Cassero di Bologna e ci hanno seguiti sullo schermo attraverso Skype. Alle 19.15 il reverendo Pinna ci ha decretati “married” e sono partiti i festeggiamenti di rito, con parenti e amici venuti dall’Italia e dal Canada (i genitori hanno festeggiato via telefono) e torta “groom + groom”.
Molti ci hanno chiesto: perche l’avete fatto se qui non vale poi nulla? La risposta è che vogliamo mostrare al nostro paese che non è più accettabile che due persone innamorate e fidanzate da 6 anni debbano fare settemila chilometri per vedere riconosciuto il loro amore. Che è giusto lottare ed impegnarsi affinché questo matrimonio sia riconosciuto anche in Italia. E perché, come ci hanno scritto su Facebook “io sono sempre per l’estensione dei diritti, che non si sciupano se li hanno tutte le categorie di persone”.
– È un diritto, anche in Italia
– I primi matrimoni gay di New York