Le gemelle siamesi di Bologna
Repubblica ha parlato con il padre delle sorelle nate lo scorso 25 giugno, mentre si discute delle implicazioni etiche di una loro eventuale separazione
Il 25 giugno scorso sono nate all’ospedale “Sant’Orsola” di Bologna due gemelle siamesi, Rebecca e Lucia. Si chiamano “siamesi” i gemelli che nascono con una malformazione molto rara, a causa della quale sono congiunti per una o più parti del corpo: si verifica solo in un parto ogni diverse decine di migliaia e portano alla morte durante la gravidanza o nelle prime ore successive al parto in circa tre quarti dei casi. Rebecca e Lucia sono congiunte frontalmente per il torace e parte dell’addome, con i due fegati fusi insieme e un solo cuore in comune, che è molto malformato. Le bambine sono nate premature, con parto cesareo, e pesavano complessivamente meno di due chili e mezzo. Dalla nascita si trovano in un’incubatrice della clinica pediatrica del “Sant’Orsola”.
La loro condizione è attualmente stabile, ma senza interventi chirurgici per tentare di separarle la loro aspettativa di vita è molto ridotta. La scelta di effettuare l’intervento, che condannerebbe una delle due gemelle a morte certa e metterebbe comunque in serio pericolo anche la vita dell’altra bambina, spetta ai genitori. Il caso ha suscitato molti interventi, nei giorni scorsi, soprattutto per le implicazioni etiche della scelta: lasciare le gemelline congiunte, dato che non si può escludere che entrambe sopravvivano (per quanto le possibilità siano ridotte) oppure affrontare un intervento rischiosissimo e che ha la certezza di uccidere una delle due bambine. Repubblica ha cercato di intervistare il padre delle gemelle. I genitori sono due trentenni che hanno già due figli e vivono in un piccolo paese della pianura padana.
“Piccole così e dentro la pancia, o alte un metro, per noi non cambia nulla: sono esseri umani, sono bambine, basta questo”. Mette il pollice e l’indice a C, poi il palmo orizzontale, si aiuta coi gesti, anche perché dietro quel sorriso disarmante per qualche attimo passa un’ombra e la voce non vuole saperne di uscire. È davvero un ragazzo il papà di Lucia e Rebecca, nonostante un velo di barba sembra più giovane dei trentacinque anni o giù di lì che deve avere, e vestito così, con pantaloni corti, sandali e la maglietta di un’associazione di solidarietà ha l’aria del caposcout.
È uscito di casa, in fondo al paese, per togliere la macchina dal sole. Fra un po’ forse dovranno mettersi in viaggio per Bologna, per vederle ancora una volta, solo per vederle, perché “non c’è altro da fare adesso”. Si ferma, stringe la mano dei cronisti perché è una persona educata, non perché abbia voglia di parlare. Dal primo piano della casetta bianca giungono voci di bambini e i rumori di stoviglie di una colazione casalinga. “Sapevamo che prima o poi la notizia sarebbe uscita, ma non vogliamo dire nulla a nessuno, non vogliamo che nessuno venga a chiederci nulla, per favore non fateci trovare la gente e i fotografi davanti alla porta, abbiamo altri due figli e dobbiamo tutelare la loro serenità. E poi cosa c’è di più da dire?”.
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