A che punto è l’Egitto
I protagonisti delle rivolte di febbraio sono scontenti di come stanno andando le cose e tornano a manifestare in piazza Tahrir
di Elena Favilli
A cinque mesi dalla rivoluzione popolare che ha costretto Hosni Mubarak a lasciare il potere, in Egitto crescono di nuovo le manifestazoni. Ieri migliaia di persone hanno protestato per il terzo giorno consecutivo in tutte le principali città del paese, e da venerdì scorso piazza Tahrir è di nuovo al centro della scena. Il luogo divenuto simbolo della protesta contro il regime Mubarak si è trasformato negli ultimi mesi nel luogo della protesta contro il governo transitorio dei militari, accusato di avere tradito lo spirito della rivoluzione e di non avere avviato le riforme democratiche di cui il paese avrebbe bisogno. La data delle elezioni non è ancora stata fissata, i processi contro l’ex presidente Mubarak e i suoi collaboratori vanno a rilento e molti dei ruoli ministeriali non sono ancora stati del tutto sgombrati dagli uomini del regime.
Nelle ultime ore i manifestanti di piazza Tahrir hanno bloccato l’accesso della Mugamma, il palazzo dell’amministrazione statale al Cairo, quello di alcuni altri edifici governativi e quello della televisione di stato. Il primo ministro Essam Sharaf ha promesso un rimpasto di governo entro il 17 luglio e annunciato che se non sarà in grado di rispettare i suoi impegni sarà pronto a dare le dimissioni. I manifestanti chiedono processi immediati contro Mubarak e i suoi figli e contro tutti gli uomini del ministero dell’Interno accusati di avere ordinato la repressione che tra gennaio e febbraio portò alla morte di centinaia di persone.
La verità è che i manifestanti hanno ottenuto pochissime vittorie dal giorno della deposizione di Mubarak. L’opposizione è frammentata in decine di partiti e venerdì la prima vera manifestazione di massa che ha riempito piazza Tahrir dallo scorso febbraio era totalmente priva di qualsiasi agenda politica. Il potere della polizia è stato ridimensionato soltanto in parte e la giunta militare è ancora saldamente legata a molti degli uomini che hanno fatto parte del governo Mubarak. Non a caso il candidato che al momento ha le maggiori possibilità di vincere le prossime elezioni presidenziali è Amr Moussa, 74 anni, ex ministro degli Esteri del governo Mubarak dal 1991 al 2001 ed ex capo della Lega Araba.
Sostenuto da una grande varietà di gruppi politici, spiega Newsweek, Moussa è molto avanti rispetto a Mohamed El Baradei, il premio Nobel per la pace che nella prima fase della protesta in Egitto sembrava il più probabile candidato alla guida delle opposizioni ribelli. Quello che i suoi sostenitori apprezzano di più di lui, continua Newsweek, è la sua ferma linea anti-israeliana. «Il processo di pace è diventata una parola sporca», ha detto recentemente in un’intervista con la rivista americana «perché abbiamo scoperto che è solo un trucco degli israeliani per continuare a parlare e sorridere davanti agli obiettivi… ma in realtà non c’è nessuna sostanza. Non dovremmo occuparci più di una cosa del genere».
I rapporti con Israele sono sempre stati al centro della carriera politica di Moussa. Quando il presidente dell’Egitto Anwar Sadat andò in visita a Gerusalemme nel 1977, per la prima volta dopo la guerra dei sei giorni, l’allora ministro degli Esteri Ismail Fahmy diede le dimissioni in segno di protesta. Moussa, che faceva parte del suo staff, si schierò allora col presidente, perché quella visita consentì all’Egitto di riallacciare i rapporti con Israele e riottenere la penisola del Sinai. Ma poco dopo Israele riprese a costruire i suoi insediamenti a Gaza e in Cisgiordania e il processo di riavvicinamento si interruppe. Da allora Moussa è sempre stato uno strenuo oppositore dello stato israeliano, al punto che le sue tirate contro Israele sono state trasformate nella canzone “Odio Israele” dal cantante egiziano Shaaban Abdel Rahim.
Al di là della sua ostilità nei confronti di Israele, spiega Newsweek, il percorso politico di Moussa resta in assoluto uno dei più ambigui. Insiste spesso nel dire di avere criticato duramente il regime di Mubarak, ma in concreto non ha mai fatto niente per cercare di cambiare le cose. Appena un anno fa, aveva rinnovato il suo supporto a Mubarak durante un’intervista in televisione: «Se il presidente Mubarak si candiderà alle elezioni, io lo voterò», aveva detto. L’ultimo sondaggio di Ipsos gli dà venti punti di vantaggio rispetto a El Baradei – 25 percento contro 5 percento – ma in netto calo rispetto al 40 percento delle preferenze che i sondaggi avevano registrato nelle settimane immediatamente successive alla rivolta. La partita è ancora aperta, insomma, e tutto si giocherà sulla base delle alleanze che i due principali candidati riusciranno a costituire.
Da tempo molti analisti avevano iniziato a segnalare che il termine previsto per le elezioni potrebbe essere troppo ravvicinato: sei mesi non sarebbero sufficienti per costituire nuove e solide forze di opposizione e il parlamento rischierebbe di finire frammentato in una miriade di piccoli raggruppamenti indipendenti, che favorirebbero soltanto l’affermarsi di forze politiche già consolidate. I primi a beneficiare da questa possibilità sarebbero i controversi Fratelli Musulmani, profondamente radicati nella società egiziana, che hanno annunciato la formazione di un loro partito politico, il Partito della Libertà e Giustizia, poco dopo la fine del regime di Mubarak. All’inizio i vari leader della Fratellanza avevano cercato di rassicurare chi con loro teme il rischio di una islamizzazione dell’Egitto continuando a ripetere che parteciperanno soltanto alle elezioni parlamentari e che non presenteranno nessun candidato alle successive presidenziali. Ma negli ultimi mesi il loro ruolo nella politica nazionale è stato sempre più rilevante e difficilmente qualcuno potrà vincere senza coinvolgerli.