La politica economica che manca all’Italia
L'economista Mario Monti analizza la manovra di Giulio Tremonti, che difficilmente favorirà la crescita, e tira in ballo Leopardi
Sul Corriere della Sera di oggi, l’economista Mario Monti analizza la manovra di Giulio Tremonti, riconoscendo al ministro dell’Economia di esser riuscito a tenere i conti in ordine, ma criticandolo per non aver messo in piedi in questi anni una politica economica concreta e credibile per favorire la crescita.
Conviene lasciarsi guidare da Giacomo Leopardi, per apprezzare pienamente la manovra varata dal governo: «piacer figlio d’affanno». In questa prospettiva il sollievo è anzi duplice, perché doppia era stata la tempesta.
Alla prima tempesta, la sconfitta elettorale, la maggioranza ha avuto la tentazione di reagire con più spesa pubblica e con una riforma fiscale in disavanzo. Se questo non è avvenuto, lo si deve alla tenacia di Giulio Tremonti e ai vincoli europei, senza i quali gli sarebbe stato forse impossibile resistere alle pressioni del presidente del Consiglio e di quasi tutto il governo. Questa resistenza ha provocato una seconda tempesta, nella maggioranza, tale da mettere in dubbio che il Consiglio dei ministri trovasse un accordo.
Invece, la manovra è stata varata, non aumenta il disavanzo e lo porta in linea con i vincoli europei. Non è detto che vi sia quiete nell’imminente discussione parlamentare, ma c’è almeno il piacere di vedere superato il duplice affanno. Se questo non fosse avvenuto, una nuova tempesta avrebbe potuto dirigersi verso l’Italia, proveniente dall’Egeo e dallo Ionio.
Riconosciuti questi meriti importanti, va detto che nella politica economica del governo, anzi dei governi Berlusconi – in carica per 8 degli ultimi 10 anni e per 7 anni ispirata e guidata dal ministro Tremonti – sono sempre più evidenti i danni arrecati dal fatto che la grande, risoluta e indispensabile determinazione contabile non è stata e non è oggi ancorata ad alcuna strategia concreta e credibile di politica economica. Se questa manca, non basta rivendicare di avere previsto – prima, molto prima di tutti gli altri – l’evoluzione del cosmo economico-sociale o di avere lanciato nuovi standard etico-legali per governare la globalizzazione. Più modesto, ma più pressante è il compito di avere una visione su come l’Italia possa conquistare più competitività, più crescita, più equità; di coinvolgere in un tale progetto le forze economiche, sociali, culturali e politiche; di attenersi ad esso nell’azione di governo.