Perché si è fermata l’NBA
Cos'è il "lockout" che ha sospeso il campionato di basket americano, e cosa c'è in ballo
di Mauro Bevacqua
Dalla mezzanotte del 30 giugno, per qualche ora, il sito ufficiale della NBA – l’organizzazione del campionato di basket statunitense – ha stravolto la propria home page ospitando soltanto un lungo e deprimente comunicato in cui il n°2 della Lega, Adam Silver, ha ricordato che “il contratto collettivo appena scaduto ha creato un sistema malato e prodotto enormi perdite finanziarie per le nostre squadre” e che, prima che si torni a giocare a basket sul pianeta NBA, sarà necessario trovare un “modello di business sostenibile”. Intanto, però, il risultato è sintetizzato da un’altra home page, quella della sezione NBA di espn.com: un bel lucchetto a blindare una cancellata e la scritta “Sono chiusi”.
Pur reduce dalla stagione più bella e di maggior successo dai tempi dell’ultimo titolo di Michael Jordan a Chicago, nel 1998, con rating televisivi in grande aumento, palazzetti strapieni, vendite record di merchandising e traffico online ai massimi di sempre, la NBA nella notte ha dichiarato il “lockout”. Si traduce con serrata (non con sciopero) perché a sancirlo sono i proprietari (la Lega e la proprietà delle 30 squadre) non i lavoratori (ovvero i giocatori). E lo stop è totale: le squadre non possono operare sul mercato, non si possono organizzare amichevoli, esibizioni o summer camp, i giocatori non ricevono gli stipendi e non possono avere nessun tipo di rapporto con i loro club.
Il motivo dello stop sono i soldi. Perché la NBA – sublime spettacolo sportivo – è anche un giochino capace di generare, annualmente, business per 4.2 miliardi di dollari. Di questa cifra, fino a ieri notte, il contratto collettivo (Collective Bargaining Agreement, CBA) stabiliva che il 57% spettasse ai giocatori, in stipendi (si parla di quasi 2.4 miliardi di dollari). Troppo, dice la NBA, che segnala come, nell’ultima stagione, 22 delle 30 squadre abbiano registrato un passivo. Se i giocatori si sono detti disposti ad “accontentarsi” del 54.3% del totale, la Lega mira invece a una salomonica ripartizione fifty-fifty.
Ma l’impasse non è tutta qui. Al centro della disputa c’è anche la natura del “salary cap”, termine talvolta evocato (spesso a sproposito) nell’italico mondo pallonaro. Per salary cap si intende una cifra massima (oggi attorno ai 58 milioni di dollari) che ogni squadra ha a disposizione per pagare gli ingaggi dei propri giocatori, ma il punto del contendere è un altro, e verte su due parole chiave: “soft” e “hard”. L’attuale cap NBA, che incontra l’approvazione dei giocatori, è “morbido” perché – sotto determinate condizioni regolate dal CBA – il limite dei 58 milioni di dollari previsto può essere superato. La NBA, che già in passato ha cercato di limitare queste eccezioni (per esempio prevedendo una tassa per cui ogni squadra, superato un monte salari complessivo di 70 milioni di dollari, è costretta a versare un dollaro alla Lega per ogni ulteriore dollaro investito in stipendi ai propri giocatori), chiede invece addirittura un cap “rigido” o al massimo “flessibile”, ma non più soft.
La distanza tra le due parti, ha sintetizzato Billy Hunter, capo dell’Associazione Giocatori, è “mastodontica. Facciamo piccoli passi ma per colmare questo enorme gap ci vorrebbero balzi giganti”. David Stern, commissioner e n°1 della Lega, ci ha aggiunto quella che chiama una “enorme differenza filosofica”.
E così, al momento, tutto è fermo, nella speranza che le trattative non si interrompano (forse già un nuovo incontro entro due settimane) e che questo stop non significhi la cancellazione di alcune gare del prossimo campionato o, addirittura, di tutta la prossima stagione. Un tale allarmismo – nonostante quanto si legga in queste ore in Italia, al grido di “Cancellato il campionato NBA” – non è giustificato: nel 1995 una situazione analoga si risolse entro settembre e la NBA non perse neppure un incontro mentre nel 1998, data dell’ultimo lockout, l’accordo arrivò solo il 7 gennaio 1999 ma bastò per organizzare una stagione regolare da 50 partite (invece di 82) più playoff e finali.
Inutile anche osservare e giudicare il tutto con la vecchia e superata retorica dello scontro di classe, con le ridicole categorie del “padronato” e della “forza lavoro” e con la falsa indignazione di chi sottolinea che lo stipendio medio (sì, medio) NBA – 5 milioni di dollari – sia il più alto tra tutte le leghe sportive americane. Non ci sono buoni e non ci sono cattivi, non ci sono santi e non ci sono peccatori. C’è uno spettacolo sportivo che – bravi loro – è anche un business eccezionale (ricordiamoci il dato di 4.2 miliardi di dollari di cui sopra) che però oggi dev’essere aggiustato, ritoccato e rivisto in alcuni aspetti. Speriamo lo facciano in fretta e ci ridiano la pallacanestro. Sarebbe un autunno molto più noioso senza.