Garlasco è un punto di passaggio
Le storie del Nord raccontate in «Kronaka», il nuovo libro di Stefano Nazzi
di Stefano Nazzi
I fari delle Rotonde di Garlasco sparano nel buio verso il cielo, le colonne luminose sono richiami nella pianura. Quando c’è nebbia, e qui eccome se ce n’è d’inverno, anche la luce artificiale fatica a conquistarsi la strada, la nebbia intorno sembra fumo. Se si potesse guardare dall’alto questo punto di Pianura Padana nelle sere lunghe del sabato, si vedrebbero infinite colonne di fari rossi che dall’uscita dell’autostrada A7 Milano-Genova s’incolonnano diligenti verso i grandi parcheggi di questa discoteca-tempio. Quando la inaugurarono, nel 1964, in mezzo alle risaie della Lomellina, la gente si chiedeva chi mai ci sarebbe venuto fino a qui. E invece ci vennero in tanti e continuano a venirci, tra fine anni sessanta e settanta Le Rotonde di Garlasco fu il Piper del Nord-Ovest. Ci sono foto di tutti i cantanti dell’epoca, l’unica che non ci ha mai messo piede è Mina perché suo fratello Alfredo morì in un incidente di macchina qui vicino, sulla statale tra Pavia e Cremona, e lei queste strade non ha mai più voluto rivederle. Alla fine degli anni settanta su uno dei palchi delle Rotonde cantò anche Madonna, ma non la conosceva nessuno, la mandarono via velocemente. Negli anni ottanta la domenica pomeriggio c’era la fila di ragazzi in auto che passavano puntuali da queste parti per caricare le ragazze che uscivano dalla discoteca e facevano l’autostop.
I tempi sono cambiati, ora le attrazioni sono gli ex del Grande Fratello, se va bene Fabrizio Corona: prendono una manciata di euro per venire qui e farsi vedere, c’è passata anche Ruby Rubacuori, quella che doveva essere la nipote di Mubarak. Al sabato, di notte, fino all’alba, lungo le strade che si allontanano dalle Rotonde e dalle altre discoteche della zona, carabinieri e polizia presidiano il territorio, con i loro giubbotti catarifrangenti. Non c’è ragazzo sotto i venticinque anni di queste parti che non abbia dovuto fare la prova del palloncino. A volte i controlli non bastano, a volte qualcuno ci rimette la pelle.
Se si potesse guardare dall’alto questo piccolo punto di Pianura Padana il mercoledì sera, si vedrebbero invece le lunghe colonne dei fari rossi delle auto che attraversano le strade strette per puntare verso il limite del paese, al santuario della Bozzola. Al mercoledì sera si fanno miracoli, guariscono le ragazze anoressiche. Quando è inverno il santuario si scorge appena in mezzo alla nebbia, tra case e campagna. È dalla metà degli anni novanta che questo posto è una meta per malate moderne scortate dalle famiglie in cerca di riti antichi. La preghiera della guarigione è alle nove, raccontano che dopo la funzione anche le ragazze più magre provino strane sensazioni allo stomaco, dicono che sia fame. La gente di Garlasco guarda da lontano, un po’ infastidita. Ma le auto arrivano anche cariche di bottiglie e damigiane vuote, c’è un pozzo da queste parti che esiste da sempre, ora si dice che la sua acqua sia miracolosa. Il pozzo non è di tutti, è del signor Ivo Pignatti, giura che l’acqua fa miracoli veri, che tanta gente è guarita dal fuoco di sant’Antonio: «Ti lavi con quest’acqua», dice, «e sparisce tutto». In tanti ci credono, vengono da fuori, anche se la Chiesa tace e un giorno la Asl ha mandato i suoi ispettori a chiudere i rubinetti perché aveva trovato tracce di diserbanti nell’acqua dei miracoli.
Garlasco è un punto di passaggio, un punto piccolo in mezzo a una pianura, la Lomellina, a sua volta persa nella grande Pianura Padana. Pavia è attaccata, solo venti chilometri, Milano è a meno di mezz’ora d’auto. Poi c’è Vigevano, ci si arriva anche in bicicletta, basta seguire il Ticino. A volte sembra vero che fin da Pavia si senta il mare, come canta Ivano Fossati. Lungo la Statale dei Giovi ci passavano lente le Fiat 1100 e le Seicento quando l’autostrada ancora non era stata inaugurata. Il Piemonte è lì dietro, le colline poco lontane. Quello che si sente davvero in questi territori è l’umidità, la Lomellina è terra d’acqua, era una grande palude un tempo, furono i monaci nel Medioevo a bonificare col duro lavoro tante marcite: dai fiumi sono nati centinaia di canali e rogge, un reticolo infinito d’acqua. Dall’alto sembra una grande nervatura che si irradia in ogni angolo di terra. Anche le leggende sono legate all’acqua, raccontano che ad Albonese, venti chilometri da Garlasco, da un fontanile uscisse un mostro. Ma era un mostro buono che salvò un bambino dalle acque cattive che volevano prenderselo. Leggende più strane e moderne dicono che la Lomellina sia terra di atterraggio di ufo. E per questo a Remondò, che da Garlasco è a soli dieci chilometri, gli americani avrebbero installato un potentissimo radar: lo dice il Centro ufologico italiano. Di certo c’è che in queste terre ci passò un bel po’ di storia: nelle paludi si scontrarono gli uomini di Annibale e quelli di Scipione e poi, nel 1700, i franco-piemontesi e gli spagnoli. Ne è corso tanto di sangue in questi prati marcitori da cui oggi esce ancora tanta nebbia che sembra poter coprire il mondo intero.
Questi posti li fece conoscere Lucio Mastronardi. Nel Maestro di Vigevano dipinse con le parole la nebbia e l’angoscia, descrisse il lavoro nelle “fabbrichette” di calzature, la fatica dei piccoli imprenditori e degli artigiani, la vita durache un tempo ti ripagava a fine mese ma ora invece chissà, è tutto più difficile. Racconta il libro, e poi lo raccontò in un film Pietro Germi, con Alberto Sordi a fare il lombardo triste e sconfitto, la storia del maestro Mombelli, travolto dall’Italia del boom economico, convinto dalla moglie a smettere di insegnare e ad aprire una “fabbrichetta” di scarpe. Tornerà all’insegnamento il maestro Mombelli, lasciando un mondo che per lui è troppo duro e cinico. Al nuovo esame d’idoneità per tornare a fare il maestro declamerà D’Annunzio: «Fa’ di te stesso un’isola» ma anche «I biscotti italiani sono migliori dei migliori inglesi». Finirà malissimo Mastronardi: morirà suicida nel 1979. Qualcuno un giorno lo vide passeggiare avanti e indietro sul ponte del Ticino: lo ritrovarono ore dopo, annegato, sul greto del fiume.
Di piccole fabbriche di scarpe ne aprirono tante da queste parti a partire dagli anni cinquanta: sembrava che il boom economico non dovesse finire mai. Vigevano divenne in tutta Italia la “capitale della scarpa”, le esportazioni all’estero crescevano e crescevano. Lavoro furibondo, intuito, un po’ di voglia d’avventura: questa era la formula. Raccontava Mastronardi nel suo libro di come allora i maestri si disputassero i figli più “pregiati”: «Tu passi a me il figlio dell’industriale, io ti passo tre figli di artigiani». «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non ne ho viste». Così iniziava un reportage di Giorgio Bocca da Vigevano. Continuava così: «Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Non volevo crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n’era una in via del Popolo: se capitava un cliente forestiero, il libraio lo guardava con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un anno». Bocca raccontava di posti dove «i contadini possono diventare ciabattini e i ciabattini industriali nel giro di poche settimane». Così era Vigevano: «Avanti popolo, la ricchezza è a portata di mano, di fallimento non si muore e se va bene va bene».
Alla fine degli anni novanta le piccole fabbriche iniziarono a chiudere. Colpa dei cinesi, dicono da queste parti. Colpa delle grandi industrie che vanno a produrre all’Est, aggiungono. I piccoli imprenditori della Lomellina l’hanno imparato sulla propria pelle che cosa significa il termine delocalizzazione. Resistono, ma a fatica, gli agricoltori, i proprietari di risaie e allevamenti. Ma la maggior parte della gente alla mattina prende il treno, va a lavorare a Milano. Dall’alba i treni si affollano, scalo a Pavia e poi Milano, meno di un’ora in tutto. D’inverno i vagoni sono gelati, la condensa cristallizza l’odore di caffè. D’estate si soffoca. I bagni dei treni interregionali sono inutilizzabili, i pendolari protestano regolarmente ma non cambia mai nulla. Avanti e indietro, ogni giorno.
Gli studenti prendono l’autobus, partono da piazza Vittoria, di fronte al parco giochi, e arrivano in viale Famagosta, a Milano. Sono 50 minuti, spesso stretti come sardine. Ogni anno, a settembre, comitati di cittadini chiedono di aumentare il numero di mezzi, la risposta è sempre la stessa: non si può, è antieconomico. Tanti ragazzi studiano a Pavia: c’è una delle università più antiche d’Europa, è prestigiosa. E poi Pavia porta bene, ci abitò anche Albert Einstein, quando aveva quindici anni: in via Foscolo scrisse il suo primo articolo scientifico. Sono cambiati molto questi posti, è cambiata molto Garlasco negli ultimi trent’anni, un tempo era un feudo rosso, poi negli anni novanta è arrivata la Lega a spazzare via tutto. Nel 2006 in paese è tornata con fatica una giunta di centrosinistra, una delle poche eccezioni in un oceano verde e azzurro. Ma alle ultime elezioni politiche la lista che univa Popolo della Libertà e Lega è andata oltre il 70 per cento.
Se, ancora una volta, si potesse guardare Garlasco dall’alto, si potrebbe scorgere un piccolo quartiere di villette nuove, quasi al limite del paese. Ci vivono le famiglie di artigiani e piccoli imprenditori, quelli che si sono costruiti la piccola attività, hanno investito i risparmi in queste case circondate da giardinetti piccoli e ben curati, sui cancelli le targhette avvertono “Attenti al cane” e spesso casa e azienda sono la stessa cosa, tra piano terra e primo piano. E guardando bene dall’alto, avvicinandosi piano, si potrebbe scorgere una via piccola e stretta, senza uscita, via Pascoli, e al numero 8 un cancello conosciuto e una porta vista mille volte, però in miniatura, una casa diventata plastico, modello, sezionata in trasmissioni televisive con sguardi che dalle poltrone bianche si muovono frenetici tra telecamere e piccole figurine immobili.
Le dita si agitano lungo il perimetro in scala, le voci concitate scoprono: «Ecco, Chiara Poggi era lì», «Ecco, la bicicletta era appoggiata in quel punto». Bisogna tornare verso l’alto per allontanarsi dalle voci e vedere che quella villetta ricomincia a essere casa vera e non un plastico di figurine. Intorno ci sono i 9.000 abitanti di Garlasco e le risaie e poi, più in là, Milano, enorme, che si mangia strade e paesi e arriva ad annettersi tutto. Bisognerebbe allargare lo sguardo dai tetti di quelle villette e osservarlo tutto dall’alto questo Nord così poco comprensibile per chi è lontano. E allora ci si potrebbe immaginare un giorno preciso, il 13 agosto 2007: guardando bene si vedrebbero giornalisti e curiosi assiepati dietro le transenne piazzate dai carabinieri in via Pascoli. Si potrebbero vedere tante figure entrare e uscire dal cancello del numero 8, figure in divisa che si muovono veloci. È quello ora il luogo più famoso di Garlasco, è qui che un giorno torrido d’estate iniziò il grande show, lo spettacolo della vita e della morte che trasformò questo paese nella capitale del Nord oscuro, quello cattivo. Ci passeranno tutti in questo show, intorno al corpo di una donna morta giovane.
Protagonisti e comparse, criminologi e carabinieri inesperti, gemelle in cerca di fama e di qualche fotografia, maghi e veggenti, truffatori e ciarlatani. Ci passeranno decine di periti. Ci passerà Fabrizio Corona a cercare di scritturare qualcuno da vendere poi nel grande circo della realtà. Lui che ha fatto fotografare migliaia di vip, semivip, aspiranti vip per repertarli in una grande corte dei miracoli, ha capito che adesso è la realtà che tira, è la realtà che vende. E più la realtà è brutta e oscura e più va forte. E tutto parte da qui, da questa piccola via di Garlasco, da una scala stretta che va verso la “tavernetta” di casa Poggi. Dal corpo di una ragazza immobile su quelle scale, nel sangue.
Bisogna immaginarselo questo posto nel giorno che precede di quarantott’ore il Ferragosto. Le famiglie sono via, in Liguria o sulla riviera adriatica: una settimana, dieci giorni, non di più perché i soldi bisogna risparmiarli, non è più come un tempo che si stava via tutto agosto. Il caldo è pesante, peggio che al Sud, sale dall’asfalto delle strade e si abbraccia col cielo basso e afoso. I bar sono chiusi e così i negozi, in giro non c’è nessuno e chi è abituato a vedere questi paesi muoversi veloci dal mattino alla sera si scopre a provare un po’ d’angoscia nel guardare le strade deserte, l’erba dei prati ingiallita e secca, i bar e i negozi chiusi, i cartelli attaccati alle cler, che così chiamano in Lombardia le serrande, con l’immancabile ombrellone disegnato e la scritta “Si riapre il 28-08”. I rumori sono pochi e attutiti, si sentono gli squilli del telefono dalle case deserte dei vicini, i cani non abbaiano, sono al mare con i padroni oppure in qualche pensione per animali della zona.
In paese sono rimasti in pochi, gli studenti che preparano gli esami, gli anziani, sentinelle vigili dietro le tapparelle chiuse per non far entrare la luce. Le famiglie che non riescono a partire per le vacanze il sabato e la domenica cercano un alito di fresco sotto il ponte della Becca, dove il Ticino confluisce nel Po. È un ponte bellissimo, storico, fatto di metallo: con le grandi piogge del novembre 2010 è venuto via un pezzo, hanno dovuto chiuderlo. Come a Pompei, certo meno storico e meno famoso. Ma chi abita da queste parti l’ha presa male, il ponte della Becca fa parte della storia di questi luoghi.
È in un giorno così che entrano in scena i personaggi di questa vicenda brutta e famosa. È passata da poco l’ora di pranzo quando un ragazzo compone sul suo cellulare il 118, il numero delle emergenze. Dice: «Mi serve un’ambulanza in via Pascoli a Garlasco». Poi: «Credo che abbiano ucciso una persona, ma non sono sicuro, forse è viva». L’operatore chiede: «Ma lei cosa vede, cosa è successo?». «C’è sangue dappertutto, lei è per terra». «Ma in strada o in casa?». «No, in casa». «Ma è una sua parente?». «È la mia fidanzata». «Lei è in casa adesso?». «No, sono in caserma, sono arrivato adesso, ora racconto quello che è successo».
Il ragazzo si chiama Alberto Stasi, ha ventiquattro anni, è biondo e ha gli occhi azzurri. Gli occhi: quanto se ne parlerà di quegli occhi, dimenticando a volte indizi e prove e buttando parole e parole su uno sguardo. E quanto si parlerà di quella telefonata; in tanti, avidamente, negli anni a seguire andranno a cercare l’audio in Internet per ascoltare la voce di Alberto che chiede aiuto. «Non c’è dolore in quella voce», diranno in tanti, «non c’è paura, non c’è angoscia». La storia che racconta Alberto è semplice: «Ho chiamato più volte Chiara, non mi rispondeva. Alla fine sono andato a vedere, ho scavalcato il cancello, sono entrato in casa sua. C’era sangue, Chiara era lì, in pigiama, dietro la porta della cantina. Ho dato l’allarme». È la versione del ragazzo, non la cambierà mai.
Il 13 agosto la notizia che a Garlasco c’è stato un omicidio viaggia veloce, dal paese arriva nei luoghi di vacanza. Da Falzes, sulle montagne del Trentino, parte sconvolta la famiglia Poggi. I genitori di Alberto Stasi sono a Spotorno, hanno una casa: prendono l’auto e in tutta fretta arrivano a Garlasco. I carabinieri controllano, fotografano, repertano, cercano di capirci qualcosa. Cento persone verranno interrogate, nessuno ha visto nulla di utile. La gente di Garlasco in quelle giornate umide e calde si rintana nelle case. Qui ormai nessuno crede più che il male sia lontano, che sia solo laggiù, in fondo all’autostrada, nella grande città. Uscita Milano, uscita paura. No, non è più così. Qualche settimana prima del 13 agosto Garlasco era già finita sui giornali per un fatto grave, drammatico. Era successo che un uomo di settantadue anni si era convinto che la moglie, sessantanovenne invalida, lo tradisse con un vicino di casa, un ivoriano di quarant’anni. Così una sera aveva aperto la porta di casa del vicino e aveva sparato, su di lui e su un’amica di ventitre anni che era in casa. Poi aveva sparato anche alla moglie, senza colpirla. Un anno dopo i giornali torneranno a occuparsi di quel brutto fatto: la ragazza, amica dell’ivoriano, era rimasta in coma quattro mesi e aveva subito otto operazioni per le ferite al volto, alle braccia, alla colonna vertebrale. Le era stato dato il permesso di soggiorno ma, contemporaneamente, anche la parcella per le spese mediche: «Funziona così», le dissero. L’uomo che aveva sparato, Vincenzo Lamoglie, venne condannato a nove anni, lo dichiararono semi infermo di mente. «L’è matt», dissero in paese, «è matto».
Ma questa volta è diverso, qui non c’è un matto di mezzo, qui c’è solo un feroce assassino. Chiara Poggi era di qui, una del paese, una di Garlasco. L’hanno ammazzata. Perché? Chi è stato?
***
È uscito per Laterza Kronaka. Viaggio nel cuore oscuro del Nord, di Stefano Nazzi, un’analisi delle storie di cronaca che hanno segnato il Nord Italia, tra Lombardia e Veneto. Nazzi fa il giornalista per il settimanale Gente, ha un blog che si chiama Kronaka, e un blog sul Post, in cui scrive di Italia e storie di cronaca nera.