Il problema della Grecia
I prestiti non funzioneranno e il fallimento nemmeno, scrive l'Economist: l'unica soluzione possibile è un'altra
“L’Unione Europea sembra avere adottato una nuova regola: se un piano non funziona, insisti”. Inizia così un articolo dell’Economist – concreto, severo e anche piuttosto inquietante – riguardo la crisi dell’economia greca e le sue ripercussioni sui paesi appartenenti all’eurozona. Allo stato attuale la situazione è questa, auspici compresi. La settimana prossima il governo greco approverà un nuovo pacchetto di misure di austerità. A quel punto otterrà la nuova rata – 12 miliardi di euro – del primo prestito garantito da UE e FMI, da 120 miliardi di euro. Poi, ammesso che si riesca a convincere la Germania, si dovrà procedere con un secondo bailout, di almeno altri 100 miliardi di euro. Questo terrà a galla la Grecia fino al 2013, quando sarà istituito il cosiddetto Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), l’Euro sarà salvato e tutti vissero felici e contenti.
Oppure no. Ci sono tre ragioni, scrive l’Economist, che fanno pensare che l’obiettivo dei leader europei – riuscire a far sì che la Grecia possa pagare i propri debiti – sia semplicemente irraggiungibile. Primo. Le misure adottate per evitare una crisi dell’euro stanno generando crisi ancora più gravi e pericolose. Migliaia di cittadini in Grecia scendono in piazza ogni giorno contro le misure di austerità, in manifestazioni che spesso e volentieri diventano violente. Il governo greco si tiene in piedi col nastro adesivo: l’opposizione non voterà le misure di austerità e alcuni deputati di maggioranza sono ancora indecisi. La Germania non impazzisce all’idea di dare alla Grecia altri soldi, e sia in Germania che in Francia e nella stessa Grecia si avvicinano le elezioni.
Secondo. I mercati sono convinti che la Grecia rimarrà insolvente. Gli investitori privati latitano. La differenza di valore tra i bond greci e quelli tedeschi è aumentata di otto punti nell’ultimo anno. Terzo. Più passa il tempo e più la paura di un contagio ad altri paesi europei aumenta, invece di diminuire. All’inizio si pensava che solo la Grecia avesse bisogno di un prestito internazionale. Poi sono arrivati Irlanda e Portogallo. Ora tremano pure Spagna e Italia.
Si parla sempre di più di un default greco come di un possibile “momento Lehman”, in riferimento al fallimento della banca Lehman Brothers che nel settembre del 2008 portò nel baratro molti altri istituti finanziari devastando l’economia mondiale.
Alternative? C’è quella proposta soprattutto dalla destra e dai partiti euroscettici: lasciare che la Grecia fallisca, abbandoni l’Euro, ripristini la Dracma e faccia quindi qualcosa di simile a quanto ha fatto l’Argentina nel 2001. Non funzionerà, dice l’Economist. Alcune banche falliranno, l’inflazione decollerà insieme ai prezzi delle importazioni. I vantaggi della moneta debole sarebbero pochi, visto che le esportazioni incidono per una minima parte sul prodotto interno lordo greco. Inoltre, la rottura dell’eurozona metterebbe ulteriore pressione sui paesi in bilico: se la Grecia lascia l’Euro, perché non potrebbero farlo Irlanda, Portogallo, Spagna o Italia?
Rimane una sola strada, scrive l’Economist. “Una ordinata ristrutturazione del debito greco, che dimezzi il suo valore intorno all’80 per cento del prodotto interno lordo”. Per ristrutturazione del debito si intende una modifica, non necessariamente multilaterale, delle condizioni del denaro da ripagare: tassi di interesse, scadenze. Anche qui non mancano le controindicazioni, specie per i creditori e i contribuenti europei che hanno finanziato i prestiti alla Grecia. E anche questo non basterebbe da solo: servirebbe comunque la sorveglianza di Bruxelles, misure di austerità e qualche sostegno esterno. Ma è l’unica strada che non porti a un disastro, scrive l’Economist, visto che sia il default greco che nuovi prestiti a fondo quasi perduto rischiano concretamente di peggiorare la situazione.
foto: David Ramos/Getty Images