Pensando a Pontida
Sarcasmo o dialogo col pratone?, si chiede l'inviato del Post sul suddetto
di Ivan Carozzi - Foto di Thomas Pololi
Sono in due, e sembrano girare in coppia da una vita. Il primo è piccolo, porta grandi occhiali da vista, in finta tartaruga, e indossa un gilet da lavoro ‘Orgoglio Padano’. L’altro è uno spilungone, magrissimo. Indossa una polo verde e un marsupio legato in vita. Sono le nove del mattino, stazione ferroviaria di Bergamo, e i due stanno cercando, senza successo, di acquistare un biglietto per Pontida, infilando un pezzo da dieci dentro la fessura della biglietteria automatica. Dalla macchina esce una voce metallica e loro rispondono con qualche protesta punteggiata da profonde ümlaut. Dopo due, tre tentativi, decidono di mollare il colpo. Sembra davvero uno sketch dei Fichi d’India e per me, che vado a Pontida per la primissima volta, è un episodio che conferma i sarcasmi di sempre sull’antropologia leghista. In realtà, non appena salgo sul treno e mi siedo tra i militanti che discutono con vera passione, ironia, intelligenza semplice e pratica, delle questioni politiche che riguardano il loro partito, mi riapproprio della lezione banale, quanto spesso dimenticata, che consiglierebbe di conoscere sempre da vicino, e toccare con mano, i cosiddetti fenomeni sociali. È una lezione banale che si rafforza guardando, dal finestrino del treno, il corteo di macchine e ciclisti che sotto il sole della Alpi marcia verso Pontida. Una scena grande, che meriterebbe un commento di Giuseppe Verdi.
Pontida – Püntìda, come si legge nella segnaletica doppia all’ingresso del paese – è una minuscola frazione pedemontana. Il famoso ‘pratone’, dove dall’inizio degli anni ’90 si svolge il raduno della Lega, è una conca verde piazzata tra la strada e un pezzo di montagna. Intorno alle dieci del mattino il pratone è già pieno di militanti, vessilli bianchi e verdi –“Lo spettacolo del ’91, in pratica”, dice un signore al cellulare, con una bandiera della Lega legata a mo’ di pareo intorno alla vita- mentre a lato, nei pressi di un Penny Market, si alternano decine di gazebo che ospitano associazioni culturali, gastronomie, famiglie di artigiani e commercianti. Si vendono radiosveglie con l’immagine di Umberto Bossi, salami, finte banconote con l’immagine di Roberto Cota, la biografia ‘Bruno Ravera, il leghista attacchino’, penne a sfera padane, calendari con gli Indiani d’America, testi revisionisti sul Risorgimento, giochi da tavolo ispirati a Matilde di Canossa. È una sorta di controcampo rurale al Salone del Mobile di Milano. Gli altoparlanti, intanto, trasmettono a ciclo continuo uno spezzone di ‘Braveheart’: “E se ora fosse qui distruggerebbe gli inglesi con palle di fuoco dagli occhi e fulmini tonanti dal culo!”. I subwoofer scuotono le zolle del prato. Tra il profumo di carne grigliata, un tale distribuisce il foglio ‘Il cisalpino’, con un’intervista a Renato Pozzetto. La gigantesca scritta ‘Verso la libertà’, montata sopra il palco, ripropone l’escatologia leghista. Quanto bisognerà ancora aspettare, mi chiedo, perché si concluda questo lungo viaggio, accanto al PdL, ‘verso la libertà’? E quanto è politicamente decisivo e strategico, per la sopravvivenza di un ceto politico, l’eterna e dilazionante riproposizione del faticoso moto a luogo espresso nella locuzione ‘verso la’?
Il primo intervento di Bossi si apre con “quei coglioni dei giornalisti” e si chiude con “quegli stronzi dei giornalisti”. I cinquantadue sindaci leghisti, schierati alle sue spalle, vengono ribattezzati ‘borgomastri’. Tra Bossi e la parte più vivace dei militanti va in scena uno schema relazionale. Quando i militanti gridano ‘Se-ces-sio-ne!”, Bossi sussurra ‘Padania’, e i militanti chiosano ‘Libera!’. E’ una specie di reciproco trick psicologico, che ricorda i concerti di Vasco Rossi, mediante il quale si rinnova la fiducia nell’originaria comunione d’intenti tra popolo e leader. Per quanto tempo potrà ancora durare? Grandi sorrisi nel pratone, e birra, salsicce, tavoli da picnic, ex tossici che a torso nudo mostrano il sole delle Alpi tatuato sull’avambraccio. Déjà-vu di vecchie feste dell’Unità, come spesso è stato scritto, ed è in fondo una cosa paradossale sentire certi slogan anticomunisti rimbalzare da un gazebo all’altro. I leghisti si vestono con abiti e gadget autoconfezionati, secondo una creatività elementare che documenta un sentimento di adesione profonda al partito, molto più meditata, genuina, spesso autoironica, di quanto si potrebbe pensare. I foulard verdi che certe vecchie signore portano legati sotto il mento, come se ne vedevano nei paesi cinquant’anni fa e nei film di Ermanno Olmi, testimoniano quanto in profondità, nella storia sociale del Paese, si spinga il pratone di Pontida. Il pratone, tutto ciò che spettacolarmente ondeggia sotto il palco, è il luogo di un intreccio di storie, tradizioni, culture, mezze finte, mezze vere, che si sentono minacciate, come in ‘Avatar’, e si rifiutano di estinguersi, e sono sentimenti legittimi che meriterebbero dialogo, credo, non il sarcasmo con cui, del resto, ero salito in treno a Milano.