Itabolario: Hippy (1967)
Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)
di Giacomo Scheich
1967. Hippy (s. m. e f. e agg.)
Gianni Rodari, firmandosi con lo pseudonimo di Benelux, aveva confermato il suo acume di scrittore e giornalista al passo coi tempi quando, l’anno prima, aveva scritto su “Paese Sera”: «è stato l’anno dei giovani, dei capelloni, dei “provos”, delle minigonne. Perfino a Firenze, a mezze gambe nel fango, sono stati in prima linea questi minorenni guastafeste […]. Sbaglieremo, ma il 1967 e il resto del secolo dovranno fare i conti con loro» (L’anno dei giovani, 21 dicembre). Non aveva sbagliato affatto. I giovani, a partire da quest’anno e per tutto il decennio successivo, reciteranno un ruolo da protagonisti all’interno della società: proveranno a prendere in mano il loro futuro; tenteranno di cambiare la società ereditata dai genitori; introdurranno nuovi movimenti culturali, diversi ideali politici e una nuova visione del mondo. Il massimo, per un ragazzo degli anni cinquanta, era rappresentato dalle canoniche “tre M”: moglie, mestiere, macchina. Per chi appartiene alla generazione del decennio seguente questo non basta più; si cerca altro, si vuole di meglio; si aspira a un mondo senza guerra, più equo, dove chiunque possa sentirsi in pace con sé stesso. Risuonano intanto sempre più sulla stampa, e sulle bocche dell’opinione pubblica, parole “diverse”. Di capelloni si era già parlato in realtà fin dalla prima metà degli anni sessanta («Negli anni 1964-68, fra i giovani molti si sono lasciati crescere i capelli per rendersi stupidamente sim. ai componenti del quartetto ingl. dei Beatles»: Vaccaro, 1967, s. v. capellone; «il termine […], riferito agli hippies nostrani, nasce […] a Roma nella primavera del 1964, in piazza di Spagna»: Messina, 1983, p. 721); ora è il momento degli hippy (cfr. DNI, s. vv. hippie e hippy). L’etimologia della parola è controversa. Alcune fonti la connettono a hip, termine del gergo jazzistico americano opposto a square (Klajn, 1972, p. 37). Altre propongono il legame con hip per hep (indicante, sempre nell’angloamericano, una persona “bene informata” o “vivace, vistosa”: DELI, 1999, s. v. hippy): «il suffisso -ie o -y vorrebbe essere qualcosa come un diminutivo che denota affettuosità, familiarità, cameratismo, e che quindi non è necessariamente connesso con la piccolezza o il formato ridotto di una persona, di una cosa, di un concetto» (Messina, 1983, p. 721).
Il 14 gennaio 1967, a San Francisco – futura capitale del movimento –, si tiene lo Human Be-In, primo grande raduno della controcultura americana; i partecipanti all’evento, preludio della Summer of Love californiana, indossano «cappelli strani, tuniche indiane, boa piumati, [sono] scalzi, [hanno] bambini, porta[no] cani, e in mano campanelli, libri, candele» (Pivano, 1981, p. 285). Sul palco si alternano i principali gruppi rock di San Francisco; fra gli altri i Grateful Dead, i Jefferson Airplane, i Big Brother & The Holding Co. di Janis Joplin. Oltre ai musicisti, attivisti politici come Jerry Rubin e poeti come Allen Ginsberg si esprimono in diverse forme davanti ai 20.000 giovani presenti. Il “santone” del movimento, Timothy Leary – docente espulso da Harvard per i suoi esperimenti con l’acido lisergico (LSD) –, pronuncia poche parole, che diventeranno il suo motto: Turn on, tune in, drop out («Accendetevi allo spettacolo; sintonizzatevi con ciò che sentite; ritiratevi dal liceo, dall’università, dalle medie, dai corsi di economia e seguitemi, seguite me su questa strada difficile»: Pivano, 1971, p. 285). Gli hippy vengono finalmente allo scoperto. Tutto il mondo pullula di gruppi di ragazzi e ragazze vestiti in maniera non comune: portano messaggi di pace e fratellanza; soddisfano i propri bisogni di spiritualità guardando alle religioni orientali; sono aperti a esperienze extrasensoriali, consumate il più delle volte con l’ausilio di sostanze allucinogene; vivono spesso in comunità a sé stanti, tendenzialmente isolati da una società di cui non accettano i valori. Le radici del fenomeno sono sicuramente rintracciabili nella beat generation degli anni cinquanta e nei suoi esponenti di maggior spicco: Jack Kerouac, William Burroughs, Neal Cassady, Gregory Corso e soprattutto Allen Ginsberg, formidabile ponte di collegamento tra l’anticonformismo individualista postbellico e quello collettivista hipster. Già lucidissimo ritrattista degli “sconfitti” – lo scandaloso Howl (“L’urlo”) è il poema-manifesto degli anni cinquanta –, diventa ora il più autentico portavoce della controcultura dei Sixties; se la ribellione è il minimo comune denominatore tra le due generazioni, Ginsberg ne è l’anello di congiunzione personificato.
Il messaggio degli hippies si diffonde rapidamente sulle pagine della stampa underground. In Italia ne circolano diverse testate: “Mondo Beat”, “Urlo Beat”, “Grido Beat”, “Mai” ecc. Tra le altre si distingue “Pianeta Fresco”, realizzata da Fernanda Pivano e dal marito Ettore Sottsass. Tiratura limitatissima (275 copie il primo numero) e solo due uscite, fra il 1967 e il 1968; grafica all’avanguardia, ricalcata sui modelli psichedelici del californiano “San Francisco Oracle” e del londinese “Oz”; collaborazioni eccellenti: Ginsberg, Burroughs e poi Lawrence Ferlinghetti, Timothy Leary, Paul McCartney e altri. Il tutto sapientemente amalgamato nell’intento di coniugare l’ambiente intellettuale con i giovani alternativi.
L’ultima pagina del secondo e ultimo numero di “Pianeta Fresco” riporta un articolo sul finto funerale del movimento organizzato a San Francisco: Gli hippies riposano in pace. Lunga vita ai Freebies. La stagione hippy, tuttavia, non si esaurirà del tutto. Proseguirà attraverso il teatro (il Living Theatre è un’esperienza unica nel suo genere), il cinema – con il musical commerciale Hair –, la musica. Il Festival di Woodstock dell’agosto 1969 («3 days of peace and music» nelle intenzioni degli organizzatori) sarà un evento unico, ma non un caso isolato: nell’isola di Wight, un anno dopo, 600.000 persone assisteranno dal vivo all’esibizione di Jethro Tull, Joan Baez, The Who, The Doors e all’ultima apparizione del mito Jimi Hendrix. All’evento il cantautore francese Michel Delpech dedicherà la sua Wight is White, reinterpretata e resa celebre nel Belpaese dagli italianissimi Dik Dik col titolo L’isola di Wight, i cui primi versi segneranno un’epoca: «Sai cos’è l’isola di Wight? / È per noi l’isola di chi / ha negli occhi il blu / della gioventù / di chi canta hippy-hippy-py».