La Biennale, l’arte, e il resto
Filippomaria Pontani gira tra le opere e cerca di trovare un senso a questa storia
di Filippomaria Pontani
La cinquantaquattresima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (vulgo: la Biennale) si è aperta due settimane fa e durerà fino al 27 novembre. Diciamo subito che la selezione proposta dalla curatrice svizzera Bice Curiger è fiacca e anodina quanto la sciarada che le dà il titolo (“ILLUMInazioni”). Meno provocazioni e più understatement che in precedenti edizioni, forse; ma l’aver integrato al percorso diversi artisti under-40 non ha recato giovamento per la buona ragione che i giovani sono organici al medesimo sistema delle arti-star, càmpano (di lusso) grazie alle stesse gallerie e agli stessi mecenati, e quasi mai riescono a levare una voce, un’idea radicalmente nuova o alternativa. A questo punto, se uno vuole vedere davvero il meglio dell’arte contemporanea mainstream, quella che i collezionisti acquistano a peso d’oro e che condiziona lo Zeitgeist, è opportuno che, preso il vaporetto per l’Arsenale, scenda qualche fermata prima, ed esplori piuttosto Palazzo Grassi, finalmente messo a frutto dal magnate francese Pinault per una mostra efficace (“Il mondo vi appartiene”): accanto ai Murakami, ai Koons, agli Schütte e alle Dumas, spiccano parecchi autori che figurano (con opere di norma peggiori) anche in Biennale, ma non mancano alcune sorprese (gli imbottigliamenti di Bouabré, i paradisiaci paraventi di Yang Jiechang, l’Algeri di Claerbout), e alcune conferme, come la stanza al tè di Giuseppe Penone, il profetico arazzo afghano di Alighiero Boetti (un planisfero pensato e datato Kabul 1973!), le tele iperrealiste di J. Wateridge, o la gigantesca Contaminaçao di Joana de Vasconcelos, ubiquo e coloratissimo blob di tessuto che invade gli atri e i ventricoli del Palazzo con ricami, nappe, paillettes, rose di pezza, serpenti, pistoline giocattolo, cappellini di paglia, decalcomanie, bautte, fumetti, borselli…
Arsenale e Giardini: ILLUMInazioni
Ma la Biennale non è mai inutile, e quanto segue vorrebbe suggerire qualche motivo concreto per visitarla, muovendo dal punto di vista dell’amateur non-specialista che sono. Partiamo dalle Corderie dell’Arsenale: il tema attorno al quale si stringono i pochi capolavori, quelli destinati a rimanere nella storia della mostra, è il tempo: Christian Marclay nel video The Clock realizza l’astrusa trovata di proiettare un raffinato collage di spezzoni di film antichi e recenti in cui compaiono orologi puntati all’ora “reale” del momento in cui si guarda: così, per 24 ore su 24 (peccato la mostra chiuda alle 18), l’opera e lo spettatore si legano in un gioco divertito ma partecipe, complice un montaggio che trascolora con sapienza tra De Niro e Charlot, tra Murnau e Hitchcock, tra Marilyn e la Bardot; se volete un consiglio, non perdete la sequenza di mezzogiorno. Pochi metri più in là, Urs Fischer propone un’altissima replica in cera del Ratto delle Sabine del Giambologna, di fatto una candela che si scioglie pian piano giorno dopo giorno: chi più tardi visiterà la mostra, più compromessa troverà la statua. Mettiamoci anche la scenografica camera di James Turrell, dove l’illusionistica luce colorata confonde la percezione dello spazio-tempo (un gioco analogo, in ben più aulico contesto, è visibile da anni a Palazzo Fortuny). Per il resto, lo spettatore troverà un mish-mash di fumetti aztechi e microfiches randomizzate, video su Loch Ness e pupazzi di vampiri (notevole l’opera del sudafricano Nicholas Hlobo), enormi balene spiaggiate e Sacre Conversazioni fosforescenti, scale che danno sul nulla e teli di seta dipinti a candeggina: come sempre ce n’è per tutti i gusti, ma come quasi sempre manca un senso a questa storia.
Non va meglio nel Padiglione Centrale dei Giardini, pure soggetto alle cure della Curiger: non so chi possano impressionare gli onnipresenti piccioni impagliati di Cattelan (ombre di quelli già esposti nel ’97), che guardano lo spettatore dal soffitto di ogni sala; non so cosa c’entrino i tre teleri di Tintoretto trasferiti fino a qui per essere affrontati in una vasta sala a un minuscolo pezzo di carta fluttuante nell’aria (“breathing paper immersed in air and light”, ci informa in uno slancio lirico l’autore Bruno Jakob); non capisco perché di artiste altrimenti efficaci come Cindy Sherman o Pipilotti Rist si propongano qui opere debolissime. Ma se sopravvivete allo Spazio elastico di Colombo (in dialogo con il Tango elastico di Sturtevant?), ai disegni etiopi, alle dissacrazioni dei presidenti americani, alla moneta da 25 euro confitta a terra (la calpesterete sicuramente se non state attenti), ai tubi, ai muri e ai falsi ristoranti, vi meritate di gustare le cose migliori: lo straniante verbiage dei pupazzi animatronici di Nathaniel Mellors, che destruttura il formal English; una striscia di piccole foto di Luigi Ghirri che rappresentano mirabilmente l'”umile Italia” degli anni ’70; e tre serie di grandi foto del sudafricano David Goldblatt, il quale sa raccontare la violenza e la speranza del suo Paese senza alcuna retorica, semplicemente inquadrando i visi contriti dei galeotti che tornano sul luogo del delitto, oppure mappando dall’alto diverse tipologie di complessi abitativi (dai grattacieli agli slums), o ancora scattando Strassenszenen quotidiane: il calzolaio di Johannesburg ha la forza di un dipinto del Seicento.
Nonostante la crisi, l’Occidente è ancora ricchissimo. Ne facevano fede, fino a pochi giorni fa, gli yacht in tripla fila davanti a Punta della Dogana per le cerimonie di apertura dei vari padiglioni: feste, champagne e mondanità, dai corpulenti uzbeki in tight sul Canal Grande ai wasp che sciamavano con bicchiere in mano nei cortili di Castello – il tutto corredato da omologati conversari sull’arte e Nietzsche e Benjamin (questo mondo ammette in sé anche la propria parodia: argutissimi i video-Playmobil di Frances Stark al Giardino delle Vergini); il tutto celermente perché incombeva (ha infatti appena aperto) ArtBasel, dove si può finalmente anche comprare. Da questo universo, in cui un signore francese che fotografa passerotti può perentoriamente enunciare tra le proprie generalità che “lives and works in the world”, difficilmente può uscire arte genuinamente ispirata – e, torno a dire, quella buona o davvero rappresentativa di norma finisce subito nelle mani dei collezionisti come Pinault. Rimangono le convenzioni. Prendete per esempio il padiglione svizzero: tutta una laboriosa costruzione, con tanto di sacri testi esposti in traslucide teche (Agamben, Badiou, Canetti, Glissant…), per contrapporre il consumismo occidentale dei telefonini, della Coca-Cola e delle cyclettes alle guerre alle carestie e alle tragedie di Paesi lontani, mostrate in apposite, crudissime immagini. Se questo è lo scopo del gioco, meglio piantarla lì subito. Né va meglio con i veri ricchi di oggi: i sauditi spiattellano scrigni neri scintillanti, a Singapore si medita sulle nuvole, a Taiwan si insiste sui suoni e i sapori, mentre i cinesi avvolgono i malcapitati passanti, dentro e fuori il padiglione, in odorose nuvole d’incenso – evocazioni certo scenografiche, ma caduche.
Giardini e dintorni: i Padiglioni nazionali
E invece, come spesso accade, alcune partecipazioni nazionali riescono a schivare l’ovvietà, a mostrare arte che abbia presa sul reale senza scadere nel banale o nel cervellotico. Prevedibilmente, questo miracolo avviene nei padiglioni dei Paesi che soffrono, e che possono presentare i loro punti di vista con la dolente schiettezza e credibilità di chi sa di cosa sta parlando, e non deve fare sfoggio né malcelare l’odore di lucerna – poco importa a quel punto che diversi degli artisti locali abbiano in realtà comunque traslocato a Londra Monaco New York: la loro infanzia ha assorbito tutto il necessario.
Su tutti, Israele e Iraq. Sigalit Landau riempie il padiglione israeliano di un luogo mitico, il Mar Morto: da questo mare, su cui affacciano lo Stato ebraico e quello giordano, provengono i tubi per l’approvvigionamento idrico e la rete da pesca concreta di sale, da questo mare arrivano le scarpe cristallizzate anch’esse nel sale e immerse nel ghiaccio di Danzica, così come il video sul “gioco dei coltelli” di Ashkelon e quello delle donne che graffiano la sabbia quasi in un estremo gesto di lutto; più leggero, ma indimenticabile, il film del “Salt Bridge Summit debate”, in cui una bambina nascosta sotto il tavolo lega tra loro i lacci delle scarpe dei seriosi delegati israeliani e giordani riuniti per discutere di un (vero) progetto di ponte sul Mar Morto: metafora di rara delicatezza, denuncia che si fa proposta. L’Iraq, che dopo vent’anni torna a Venezia (presso la Fondazione Gervasuti, a pochi passi dai Giardini), chiama a raccolta due generazioni di artisti: il gruppo più anziano trova la sua cifra nell’acqua, l’acqua imbevibile perché compromessa dall’uranio e dalle mine, l’acqua che ha perso il suo storico, quasi sacro ruolo catartico, l’acqua che non rispecchia più i volti degli Iracheni (Alì Assaf rilegge con pregnanza il Narciso di Caravaggio), l’acqua sottratta alla Mezzaluna fertile dalle dighe della Turchia (non sarà un caso che il padiglione turco sia anch’esso interamente occupato da un impianto per la purificazione dell’oro blu). I più giovani parlano invece della guerra che ha segnato per intero le loro vite: risciacquano bandiere americane, sfogano l’aggressività in ufficio, ma soprattutto – con Ahmed Alsoudani, eccellente pittore non a caso già acquistato da Pinault – tentano la misura di un espressionismo alla Bacon per dare ragione del caos violento e irredimibile che ha travolto la loro terra.
Se l’Egitto (unico Paese della “primavera araba” presente a Venezia) affida il proprio padiglione ad Ahmed Basiony, un giovane artista ucciso in gennaio negli scontri di Piazza Tahrir, non è solo un fatto di immagine: dietro c’è un movimento artistico radicato, che emerge anche nella mostra collaterale The Future of a Promise ai Magazzini del Sale, uno spaccato interessante di ciò che gli appassionati vanno a cercare nelle gallerie di Beirut, di Tunisi, di Dubai (anche se ormai molto di fatto passa per Londra o New York). E basta guardare cosa e come espongono Siria, Iran, Cuba e Bielorussia (al di là beninteso della qualità delle singole opere) per intendere che la libertà di espressione non è poi così scontata ovunque. Anche chi riuscirà a scovare il padiglione dello Zimbabwe (ben nascosto nel sestiere di Castello: seguite le indicazioni per l’Irlanda e non demordete) sarà ripagato dalla poetica scacchiera di Tapfuma Gutsa, occupata da un’impari partita tra vezzosi cappellini ed elmetti militari. Non sarà dunque un caso che le uniche opere davvero commoventi della sullodata selezione Curiger alle Corderie siano i taccuini telefonici della nonna analfabeta di Yto Barrada (marocchina di Tangeri), e l’ampio catalogo di architetture della città abkhaza di Sukhumi, che il georgiano Andro Wekua offre allo spettatore perché mediti il destino degli alberghi liberty, delle officine d’auto, del ristorante “Abkhazia” (ma nell’insegna è caduta la zeta), delle ville liberty e dei casermoni staliniani: chiunque conosca il Mar Nero sa quanto questa potente installazione rifletta il calvario ad oggi inesausto di un’intera regione dell’Eurasia.
Ma il dramma non è solo la guerra: alle Artiglierie i cileni, provati da sismi ed eruzioni, esplorano il loro “Grande Sud” con fotografie cariche di pathos (e lasciano la capsula per il salvataggio dei minatori allo slovacco Ondák che la inasta con prevedibile baldanza alle Corderie); a Palazzo Zenobio gli islandesi, provati dal fallimento economico, s’interrogano sul loro Paese (“Your country doesn’t exist”, titolano), cantando in forma di mottetto brani della loro Costituzione sulla libertà d’impresa e sulla disciplina del credito; dentro due container in riva alla laguna gli haitiani, provati da tutto, si rifugiano in inquietanti rivisitazioni del woodoo. Non so se sia un caso che il padiglione stabile della Grecia, dal titolo ominoso “Beyond Reform”, rechi all’esterno un foglio volante che lo proclama “danneggiato da sconosciuti”; ma non è fortuito che il greco Stelios Taifakis si produca, sulla facciata posteriore del peraltro notevole padiglione danese, in un ampio affresco in puro stile bizantino che raffigura alcune tappe importanti del XX secolo, dall’Olocausto ai moti di Atene del 2008. E poi ci sono i sudamericani, rivoluzionari d’indole, che nel padiglione dell’Istituto Italiano Latino Americano mescolano con sapienza le vivide memorie delle proprie guerre d’indipendenza con uno sguardo disincantato sul mondo contemporaneo, sui rapporti di forza e sui traffici di cui i loro Paesi sono ostaggio: iconico, in tal senso, il “Tango con Obama” di Martin Sastre.
Lascio alla scoperta individuale i tanti altri padiglioni nazionali (sono 89, alcuni sparsi per la città): Francia (Christian Boltanski) e Germania (ribattezzata con frigido gioco in facciata “EGO-mania”) si raccomandano, in modi diversi, per la riflessione sul legame fra la vita e la morte; Polonia e Serbia, in modi affini, per un’ennesima riflessione sul Nazismo e l’Olocausto (delle ceneri di Eichmann si occupa anche un forte video di Dani Gal alle Corderie); Gran Bretagna, Austria e Giappone, in modi molto diversi, per una sorprendente gestione dello spazio (geniale in specie il pozzo video della nipponica Tabaimo). Il Padiglione degli USA non ha bisogno di raccomandazioni: si imporrà alle orecchie del visitatore non appena inizierà a sferragliare l’antistante tank rovesciato – se passate verso ora di pranzo troverete sui cingoli in movimento un’atletica giovane che pratica la corsa su un tapis roulant: il senso di tutto il complesso, dal titolo Gloria, sta appunto nella sarcastica contaminazione fra libertà della guerra e libertà della fitness; una simpatica appendice prevede un organo a canne con la pedaliera sostituita da un bancomat: portatevi la Visa e vedete che succede.
L’arte non è oggi un fatto di sapienza tecnica, ma di valori, di significati, di messaggi. Tra padiglioni ed eventi collaterali, vanno per la maggiore i temi dell’identità, del ruolo della donna e dell’ecologia; non pochi si guardano l’ombelico, e di spirito puro e semplice si occupa il solo Anish Kapoor con il fioco soffione piazzato dentro la chiesa di San Giorgio. Meno pneumatica l’ironica Pietà in plastica di Lee Yongbaek nel padiglione coreano: chi la vedrà corra immediatamente a confrontarla con la macabra Pietà in marmo di Jan Fabre nella chiesa della Misericordia: due modi tecnicamente riusciti, ma forse un po’ corrivi, di dissacrare il sacro. Infine, sia notato en passant che un protagonista indiscusso di questa Biennale è Silvio Berlusconi: compare a vario titolo nei padiglioni di Italia (ritratto), Belgio (video che l’accosta a Pasolini), Svizzera (copertina di rotocalco), Venezuela (affresco satirico di Francisco Bassim), e Danimarca (parodia fotografica).
L’Italia
Giungiamo così all’Italia: ho lasciato per ultimo il padiglione del nostro Paese (“L’arte non è cosa nostra”) perché se ne è discusso moltissimo, e perché è un item assolutamente anomalo nel panorama fin qui tracciato. Con tutta l’antipatia, la prevenzione e la disistima per il personaggio Sgarbi, non posso non rilevare che al termine del sonnacchioso percorso dell’Arsenale il padiglione da lui ideato esprime una vitalità straordinaria, che l’inconsulto affastellamento delle opere l’una sull’altra rende forse ancora più affascinante. L’idea di Sgarbi è stata quella di abdicare al ruolo di curatore per chiedere a duecento intellettuali italiani, diversi per età, professione e simpatie politiche, di indicare ciascuno un artista italiano vivente. Prima mozione d’ordine: che nessuno di coloro che quest’anno hanno in vario modo promosso “biblioteche”, pantheon, classifiche o empirei del 150esimo, si lamenti dell’inevitabile andamento paratattico del padiglione Italia: se accettiamo il “catalogo” come uno strumento ermeneutico dobbiamo farlo fino in fondo. Seconda mozione: non si obietti che i nomi degli artisti sono “offuscati” da quelli (per solito ben più noti) dei loro mèntori illustri, perché questo costituisce al contrario un vitale supplemento d’informazione sullo “stato dell’arte” e della sua diffusione. Terza mozione: si giudichi il risultato (pur inficiato da un brutto titolo e contaminato da discutibili superfetazioni come un improbabile “Museo della Mafia”), e si riconosca che a conti fatti questo padiglione è utilissimo, perché sottrae il bilancio dell’arte contemporanea italiana all’arbitrio di una scelta secca (qualcuno ricorderà l’imbarazzante esito del 2009), e lo consegna alla risultante di decine di opinioni autorevoli quanto divergenti, risultante che per sua stessa natura non potrà non avere un alto grado di rappresentatività.
Così, passeggiando negli ingombri spazi del padiglione si capirà quanto poco abbia attecchito la videoarte, quanto in fondo minoritaria sia l’istanza astratta, quanto prevalgano ancora nell’immaginario collettivo il figurativo e il naïf (e la fotografia, selezionata con ampiezza da Italo Zannier); soprattutto, quanto il nostro Paese sia e voglia essere la patria del Barocco, dei paesaggi deturpati e dei volti deformati, dei cani con le scarpe rosa e delle bandiere fatte di stracci, dei chiodi piegati e dei melograni smangiati, delle sculture giganti e delle “macchine” da festa del patrono. Nessuna esagerazione alla Lachapelle, nessuna fantasmagoria figurativa macabra o tecnologica secondo il gusto alla moda negli USA: piuttosto un sano mestiere casareccio, con punte di assoluta eccellenza e rare outrances davvero pretenziose o provocatorie. E poi, nel padiglione si capirà senza ambagi quanto conti in Italia (solo nell’arte?) il fatto religioso, come fede, cifra o metafora: come spiegare altrimenti le tante declinazioni artistiche di altarini, ex-voto, Madonne, reliquiari, e soprattutto il proliferare di crocifissi, da cui pendono indifferentemente donne nude con la mela in mano, giovanotti con lo slip Dolce&Gabbana, o addirittura – nella liturgica installazione-chiave di Gaetano Pesce – il nostro stesso Paese che cola orrendamente sangue?