Itabolario: Pugilato (1933)
Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)
di Massimo Arcangeli
1933. Pugilato (s. m.)
Madison Square Garden. È la sera del 29 giugno. Primo Carnera, di fronte a 31.753 spettatori paganti, manda al tappeto alla sesta ripresa, con un formidabile montante destro portato al mento, il campione del mondo dei pesi massimi, il bostoniano Jack Sharkey; «Carnera Knocks Out Sharkey; Wins the Title on 6th Round»: così il “New York Times” del giorno dopo. I giornali italiani riportano la notizia il 1° luglio, non tacendo sulle esternazioni in perfetto stile mammista (MAMMA [1957]) del gigantesco pugile e della sua emozionata genitrice:
Appena disceso dal ring il nuovo campione del mondo ha dichiarato agli accorsi per felicitarlo: Non h[o] voluto vincere per me, ma per il Duce e per l’Italia. E subito dopo ha pensato a sua madre che attendeva trepidante notizie nella lontana Sequals. Debbo tutto e te, mamma le ha telegrafato, mentre era ancora in costume di combattimento, le mani avvolte nei bendaggi (“Il Messaggero”).
Abbiamo chiesto ai genitori se avessero avuto fiducia nella vittoria. Il signor Sante non ha esitato a dire[:] «Io no». La mamma, invece, con una certa commozione così ha detto: «Non mi sono mai espressa in merito e tuttavia non so abituarmi sapere il mio Primo campione del mondo, che vuol dire l’uomo che può picchiare tutti, lui che non farebbe male ad una mosca…» (“La Gazzetta dello Sport”).
Anche il “Giornale d’Italia” recita la sua parte, sia pure con toni più asciutti («Appena giunto nel suo camerino, Primo ha inviato il seguente telegramma a Sequals: “Debbo tutto a te, mamma”»), e non si lascia sfuggire la ghiotta occasione per rilanciare su purezza razziale e cultura fisica:
Nessun Regime ha curato e cura quanto quello fascista la integrità della razza e la educazione fisica della gioventù. Il mutamento benefico operatosi in questi undici anni nelle leve dei ventenni è stato meraviglioso. Aggiungete a questa nuova realtà, l’entusiasmo delle folle per tutti i campioni vittoriosi e la trionfante atmosfera di trionfo che li circonda e li sospinge in terra italiana e in terra straniera, e vedrete che le vittorie sportive che si susseguono da qualche anno in tutti i campi, di individui come di squadre, nell[’]automobilismo come nel ciclismo, nella scherma come nel pugilato e nel calcio (senza dire del prodigio della nostra Aviazione che va annotato in tutt’altra sede) non sono il prodotto della fortuna o del caso, ma il risultato logico e incontestabile di una politica e di un Regime.
Il Duce non avrebbe potuto davvero chiedere di più, effusioni sentimentali fra madre e figlio comprese; testimone la maestra elementare predappiese Rosa Maltoni (1859-1905), che gli aveva dato i natali: «madre ispiratrice e lungimirante artefice del [suo] destino» (d’Amelia, 2005, p. 243), era già un’autentica leggenda negli anni venti. Pochi mesi dopo la vittoria di Carnera, il 24 dicembre, viene celebrata nei vari comuni italiani la prima “Giornata della madre e del fanciullo”, che sarà riproposta negli anni seguenti. L’istituzione della nuova ricorrenza (con i raduni delle levatrici, le sagre della nuzialità, le distribuzioni di culle ecc.) è solo una fra le tante impronte della politica di incremento delle nascite e riduzione della mortalità infantile intrapresa dal regime: nel 1925, con la legge 10 dicembre, n. 2277, era stata fondata l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONVI); il 26 maggio 1927, nel discorso dell’Ascensione pronunciato alla Camera, il dittatore aveva richiamato l’importanza del requisito demografico per aspirare al ruolo di “potenza politica”, “economica” e “morale” («Signori, l’Italia, per contare qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti»).
Carnera diverrà antonomasia, nell’uso popolare, di uomini e cose: «persone di grande e potente complessione» e «giganteschi camion e autotreni stradali» (DM, 1942, s. v. carnera). Era quel tipo d’uomo che avrebbe fatto la gioia dei tanti che, dalla prima metà dell’Ottocento, avevano puntato sulla cura del corpo e sull’esercizio fisico per ribaltare l’immagine dell’italiano effeminato e svigorito in un campione di virilità, in una maschia figura di combattente pronto a marciare e a difendere il suolo patrio, convintamente e senza risparmio, contro gli oppressori e i nemici. Cesare Balbo, nell’undicesimo capitolo («Come vi possono aiutare tutti gli italiani») del suo libro più noto, riconosciuta l’Italia sprovvista, rispetto ad «altre nazioni cristiane», di una virtù “forte” e “severa” (Balbo, 1844, p. 277), aveva fatto risiedere l’“operosità” necessaria per risollevare le sorti della penisola anche nelle scalate alpine, nell’arte del cavalcare, nella caccia all’orso e al cinghiale, allo stambecco e al camoscio (ivi, pp. 291-2); un ex garibaldino convertito al più acceso nazionalismo (Pasquale Turiello) e un ufficiale dell’esercito (Emilio Salaris) avrebbero aggiunto all’elenco, nella seconda metà dell’Ottocento, il tiro a segno. Nel 1844, per iniziativa di alcuni esponenti della borghesia e dell’aristocrazia, erano sorte a Torino e a Firenze le «prime società di ginnastica per promuovere l’educazione ginnica e rinforzare il fisico dei futuri soldati» (Patriarca, 2010, p. 36; cfr. Ferrara, 1992, p. 29 ss.); le scuole ginniche, pochi anni dopo l’Unità, raggiungeranno la considerevole cifra di 255, «delle quali 93 governative, 3 provinciali, 90 comunali e 69 private» (ASI-1866, p. 681). Nel 1878, al suo terzo incarico da ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis aveva ottenuto il voto favorevole della Camera per il disegno di legge che avrebbe reso obbligatoria la ginnastica nelle scuole elementari del Regno: «L’educazione virile data fin dalla fanciullezza» – aveva detto nell’aula parlamentare – «vi crea l’energia morale, la quale è la base d’onde nasce lo spirito d’iniziativa, la tenacità e la serietà nel proseguire un’opera alla quale s’è dato già un impulso, il carattere» (Duggan, 2008, p. 325). Nel 1881 il medico Guido Baccelli, al suo primo mandato alla Pubblica Istruzione dopo il quarto (e ultimo) attribuito a De Sanctis, aveva a sua volta tentato di condurre in porto, senza però riuscirci, un «progetto di istruzione popolare per l’insegnamento dell’educazione civica ai giovani tra i 16 e i 19 anni (cioè prima della chiamata di leva) che comprendeva anche la “ginnastica militare”» (Patriarca, 2010, p. 105). Nel 1891 Edmondo De Amicis, legato da vincoli di amicizia con teorici ed esperti di ginnastica femminile, aveva pubblicato a puntate, sulla “Nuova antologia”, il racconto Amore e ginnastica (poi incluso nella raccolta Fra scuola e casa, Treves, Milano 1892); l’anno dopo avrebbe dedicato all’argomento ginnico una conferenza (De Amicis, 1984) e più tardi, nei Furori ginnastici (Id., 1901, pp. 153-6), si sarebbe fatto «vanto di una salute di ferro grazie alla disciplina atletica alla quale, fin dall’adolescenza, si [era] sottopo[sto] quotidianamente» (Sirtori, 2003, pp. 23 s.). Infine, nel 1893, Francesco Crispi aveva lanciato a Palermo l’idea di fondare una Associazione nazionale per l’educazione fisica e militare del popolo (Adorni, 1999, p. 164).
Con l’avvento del fascismo, come s’è visto, il ventaglio delle possibilità di praticare sport che fossero particolarmente a cuore al regime – su tutti il football – era piuttosto ampio; potremmo integrare la rassegna del “Giornale d’Italia” con il rugby, che si tentò un po’ malamente di ricondurre all’harpastum latino, un gioco a squadre molto violento, diffuso dai legionari di Cesare fra la popolazione gallese, a mezzo fra rugby, calcio e pugilato (cfr. Lombardo, 1998, p. 280 e p. 410; Bosworth, 2007, p. 413). Le quotazioni della boxe, agli occhi del Duce e dei suoi gerarchi, aumentano vertiginosamente proprio grazie al titolo mondiale conquistato da The Ambling Alp (era il soprannome di Carnera). Nel 1933 Mussolini, ribadendo con legittimo supplemento d’orgoglio un pensiero più volte espresso, si riconferma convinto che i “giovani fascisti” debbano costituire il “vivaio dei futuri pugilatori” («perché mi sorride l’idea di vedere una generazione di così potenti cazzottatori […] che sfasci i connotati ai campioni degli altri Paesi»: Mussolini, 1951-63, vol. XLIV, Appendice VIII. Attività oratoria. 1919-1944, 1958, p. 74). L’anno dopo muoverà l’ennesima guerra verbale ad alcuni stereotipi dell’italianità (dei “sonatori di mandolino”, dei “lanciatori di bombe”, della “gente cortese”), che d’ora in avanti si sarebbe dovuto rubricare, anche qui, sotto la voce cazzottatore: «quando c’è da fare qualcosa per il primato, allora ci mettiamo tutto il fegato»; perché il «vero fascista è quello che si mangia regolarmente il proprio fegato: cioè l’uomo che prende tutto sul serio, che tutto guarda con spirito di decisione, non con l’indifferenza, non con la negligenza, non con il pressappochismo» (ivi, p. 91).
Carlo Bascetta, con riferimento al regolamento allora vigente (Federazione Pugilistica Italiana, Regolamento tecnico, Roma 1956), osserverà all’inizio degli anni sessanta: «Il regolamento parla costantemente di pugile, che ha prevalso definitivamente su boxeur, mentre nell’uso sono entrati con minore fortuna pugilatore, di derivazione classica, e il poco comune pugilista […]. Sono pure in concorrenza pugilato e boxe (artic. 28), che è più dell’uso popolare» (Bascetta, 1962, p. 32). Pugile, boxeur, pugilatore, pugilista; manca solo il cazzottatore. I due termini boxare (1831) e boxing (1832), dileguatosi nella prima metà del Novecento (ivi, p. 39), erano già nelle traduzioni italiane di due romanzi storici di Walter Scott; da escludere a quest’altezza, per il primo, l’influenza del fr. boxer, che si farà sentire invece «quando, all’inizio del ’900, insieme al pugilato entrerà in Italia [proveniente dalla Francia N. d. A.] anche il vocabolario pugilistico anglo-francese» (Benedetti, 1974, p. 99); boxing patirà contemporaneamente la concorrenza di boxe, anche questo arrivato dalla Francia.