Itabolario: Espresso (1918)
Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)
di Silverio Novelli
1918. Espresso (s. f.)
Da una foto d’archivio emerge la scritta «Tutti eroi! / O il Piave / o tutti accoppati!», vergata sulla parete di una casa semi-distrutta in riva al fiume. L’offensiva sul Monte Grappa costa la vita a più di 30.000 soldati italiani (680.000 il numero dei caduti al termine della guerra). L’attraversamento del Piave (24-29 ottobre 1918) è impastato di fango e d’acqua, e imbevuto di sgnapa (“grappa”) in cui ammollare le gallette razionate. Nel Dizionario moderno di Panzini compare, per la prima volta, l’espresso («Un caffè fatto apposta»: DM, 1918-Agg., s. v.).
Il 25 novembre del 1915, tra una sparatoria e l’altra, al sottotenente Carlo Emilio Gadda era capitato di sedersi a un desco bene imbandito, in una casetta di Edolo (Val Camonica): «La sera fui gentilmente invitato a pranzo dalla signora Romirti, la quale, poveretta si fece in quattro per offrirmi una buona cena. Antipasto di prosciutto, minestra di rape, costolette, lesso, frutta cotta, dolce stantío, caffè» (Gadda, 1965, pp. 73 s.). Nel breve momento di quiete il grande scrittore in nuce si era concesso, da bravo figlio di una borghese, se pur spiantata, famiglia meneghina, un rilievo critico sulla qualità del dolce. Sulla qualità del caffè, però, aveva taciuto. La moka – dal nome di una pregiata varietà di caffè, a sua volta esemplato sull’omonima città costiera dell’Arabia – non esisteva ancora. Che la signora Romirti, “poveretta”, abbia propinato al tenentino un surrogato, l’umile caffè di cicoria che arrivava sulle magre tavole di tanti italiani durante la prima e la seconda guerra mondiale? Oppure la soccorrevole signora avrà introdotto nel serbatoio della caffettiera, una tradizionale napoletana, inventata verso la fine del Seicento e presto diffusasi in tutt’Italia, qualche preziosa presina di miscela di arabica e robusta, viatico propizio al miglior caffè fatto in casa?
L’immaginazione lavora. Ma quando si creano le condizioni per produrre, in casa e fuori, quel caffè ristretto che diventerà uno degli emblemi della gastronomia e dello stile di vita italiani? Sorvoliamo il buco nero della Grande Guerra e tendiamo un arco aromatico di effluvi cremosi tra due punti spartiti di qua e di là dal triennio bellico: da una parte l’Italia dei “lunghi e fattivi” ministeri giolittiani in cui spicca l’industriosità nel Nord, che spinge gli artigiani d’officina a credere e investire nei propri ritrovati tecnologici; dall’altra l’Italia littoria in cui, tra mille contraddizioni, chi ha i mezzi e non si deprime può sostenere e promuovere a marchio di qualità la vecchia impresa familiare, attraverso investimenti e processi di ristrutturazione produttiva. Sul primo versante i due padri dell’espresso da bar, milanesi d’officina: l’ingegner Luigi Bezzera inventa e brevetta (1901) la macchina adatta; Desiderio Pavoni acquista il brevetto, fonda la ditta La Pavoni (1905) e comincia a sfornare in serie, in via Parini, macchine da bancone (all’inizio due al giorno). Nel Piemonte di lago e di frontiera (nei pressi di Verbania), circa trent’anni più tardi, Alfonso Bialetti inventerà la moka express, macchinetta che rivoluziona il modo di fare il caffè in casa; sarà il figlio Renato a incaricarsi di portare rapidamente l’azienda tra i principali produttori di caffettiere.
Geniale, il qualificativo espresso, per denominare quel prodotto unico, ignoto altrove nel mondo: caffè espresso, cioè pronto immediatamente su richiesta; e poi espresso e basta, sostantivo (e sostanza linguistica dell’Italia unita nella cerimonia rituale del sorseggio). Parola che si difende da sé, caffè che oggi va protetto: l’Istituto Nazionale Espresso Italiano (www.espressoitaliano.org) ha stilato la legge fondamentale dell’“Espresso Italiano Certificato”:
25 millilitri di caffè [corrispondenti a 6-7 grammi di caffè tostato e macinato, N. d. A.] ornato da una crema di finissima tessitura tendente al testa di moro, resa viva da riflessi fulvi. L’aroma deve essere intenso e ricco di note di fiori, frutta, cioccolato e pan tostato. In bocca l’espresso deve essere corposo e vellutato, giustamente amaro e mai astringente.
Ed eccoci qui, popolo di caffeinomani, a riempirci la bocca del liquido e della parola che lo designa. «Prendo tre caffè alla volta» – diceva Totò nel film I tartassati (1959) –, pronto ad aggiungere, da paria del “boom” economico: «per risparmiare due mance». In casa, dopo cena, va assaporato con calma (per i tabagisti, accompagnato o seguito da una sigaretta). Bevuto alla mattina prima di uscire è da riconfermare al bar, come segnale di contrappello che notifichi soprattutto a sé stessi l’imminente ingresso sul palcoscenico sociale del lavoro. Al meglio, a Napoli, la tazzulella, in cui è raccolto l’espresso fatto cadere con sapienza goccia a goccia, è anticipata da un bicchieretto d’acqua minerale depurativo, poiché il caffè dev’essere libero di sprigionare i propri aromi pervasivi.
Certificato o non certificato, in Italia il caffè espresso viene servito ai banconi di 150.000 pubblici esercizi, in 13 miliardi di tazzine (e bicchierini: cioè al vetro, come si dice a Roma), per un giro d’affari che ammonta a circa 10 miliardi di euro. Anche all’estero, da tempo e sempre di più, l’espresso piace. Viaggia, si afferma. Così come l’italianismo espresso, una delle numerose parole nostrane d’ambito gastronomico che ha preso stabilmente posto nei menu linguistici stranieri. La parola (in forma più o meno adattata) è presente in ben 31 delle 60 lingue vagliate nello spoglio per il Dizionario degli italianismi nel mondo, attualmente in corso d’opera, diretto da Luca Serianni con la collaborazione di Lucilla Pizzoli e Leonardo Rossi (che si ringraziano per le informazioni qui di seguito rielaborate). Acclimata nell’immediato secondo dopoguerra in inglese (espresso o expresso, per indicare la bevanda, la macchinetta e anche il bar in cui viene servita la bevanda), francese ([café] express), tedesco (Espresso), castigliano (café exprés; nel parlato, expreso), la parola spunta qua e là nel mondo: dove te la potresti aspettare (in Etiopia: amarico espraso); dove si può capire che arrivi, magari per via della mediazione del tedesco di Vienna (ungherese eszpresszó “bar o pasticceria dove si fa l’espresso”); dove suona simpaticamente originale (lituano: espresas, espreso, ekspreso; islandese: espresso; arabo egiziano, nel linguaggio dei ristoranti: isbriisu). È parola perfino in odore di globalizzazione, espresso, sotto spoglie formali “multinazionalmente” modificate grazie al lancio nell’etere seduttivo da parte dell’attore George Clooney, ambasciatore pubblicitario del marchio Nespresso ® (gruppo Nestlè) e dell’omonimo espresso in cialde. What else?