Per paura dei linotipisti
Compie 125 anni la macchina che ha permesso ai giornali di avere le caratteristiche che conosciamo oggi
“Siamo noi, siamo in tanti. Ci nascondiamo di notte. Per paura degli automobilisti, dei linotipisti”
(Lucio Dalla, Com’è profondo il mare)
La linotype è una cosa che esiste da 125 anni e, anche se molti di noi non sanno neanche cosa sia, ha cambiato la stampa e di conseguenza anche il mondo. Per farla breve, si tratta di una macchina per comporre meccanicamente del testo e stamparlo su carta: è stata per un secolo la macchina con cui si facevano i giornali, producendo le linee di piombo che poi “timbravano” i fogli. Si dice che Thomas Edison la definì «l’ottava meraviglia del mondo».
Fu inventata da un signore tedesco emigrato negli Stati Uniti che, invece di darle il proprio nome come spesso si fa col frutto del proprio ingegno, la chiamò con la composizione contratta della sua definizione: line of type, riga di caratteri tipografici, che si contrae in line o’type per diventare, infine, Linotype.
La rivista americana Atlantic ne celebra il compleanno con un articolo che spiega cos’è, racconta la sua storia e descrive la professione di chi, chino a comporre linee di testo, ha passato intere notti.
Un immigrato tedesco di nome Ottmar Mergenthaler inventò la linotype nei primi anni Ottanta del 1800, e continuò a pubblicizzarla e ad espanderne l’utilizzo finché non morì a Baltimore nel 1899. Il potere della linotype era il trasferimento di una riga di testo (digitata meticolosamente da un operatore su una tastiera speciale composta da novanta tasti) su un foglio, attraverso la creazione di una linea di caratteri tipografici che poteva essere stampata rapidamente su numerose pagine consecutive, grazie al genio delle matrici e del piombo fuso.
Ogni tasto della tastiera attivava un meccanismo che liberava la matrice del carattere corrispondente digitato. Questa veniva allineata alle matrici degli altri caratteri fino al completamento di una riga, che veniva successivamente spostata automaticamente in un’altra area della macchina dove veniva fatto colare del metallo fuso all’interno delle matrici. Si formava così un’intera riga che veniva poi impilata alle righe precedentemente digitate per preparare la colonna di ogni articolo, mentre le matrici venivano ricollocate nel magazzino per essere nuovamente utilizzate. Le righe fuse e impilate venivano infine inchiostrate e usate per imprimere i caratteri sui fogli. Il sistema era molto rapido, e consentiva di aumentare la velocità di stampa, perché i tipografi non erano più obbligati a comporre a mano, carattere per carattere, ogni riga da stampare.
La prima testata ad adottare la linotype per la stampa dei quotidiani fu il New York Tribune, nel 1886, rivoluzionando completamente il processo che improvvisamente permetteva di stampare quotidianamente giornali composti da molte pagine senza eccessiva fatica. Una volta completata la redazione degli articoli, questi venivano consegnati agli operatori delle linotype, chiamati linotipisti, che componevano sulla tastiera le matrici per la stampa.
Pare che i linotipisti agissero addirittura come editor dei giornali secondo il loro gusto, a quanto dice un articolo del 1972: «Con me, se l’operatore non apprezza ciò che scrivo, modifica la mia opinione.» scrive un giornalista della testata yiddish The Forward, comunicando con un collega che aveva notato una modifica ortografica in uno dei suoi pezzi.
Inoltre, i linotipisti erano un gruppo relativamente benestante negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, secondo una lunga descrizione scritta da uno di loro per un numero del 1979 del Texas Monthly. Per quanto interessante possa essere il profilo in sé, niente è attraente quanto il suo sottotitolo: Viaggiano di città in città. Bevono tanto, lavorano tanto, sono devoti al loro mestiere. Oh, lo sono. L’autore del pezzo, Pat Hathcock, aggiunse in seguito: «I linotipisti sono sempre stati bevitori. Benjamin Franklin l’ha detto. Thorstein Veblen l’ha detto. Persino mia moglie l’ha detto.»
Hathcock continua il suo racconto spiegando come avvenne il suo apprendistato, prima su una tastiera finta e poi sulla linotype vera e propria. E parla di quei linotipisti viaggiatori, che grazie alla flessibilità e alla continua domanda del loro profilo professionale si trasferivano spessissimo.
Venni a conoscenza dei «traveler» –- uomini che viaggiavano attraverso la nazione da tipografia a tipografia. Parlavano con nonchalance di qualsiasi città di dimensioni rilevanti, e avevano sempre consigli e giudizi da offrire in tema di bar, donne e alberghi tanto quanto di tipografie e giornali. Uomini che avevano viaggiato così tanto (e la maggior parte dei traveler erano maschi) erano sofisticati in una maniera che trascendeva l’educazione formale, a loro agio in qualsiasi contesto, e con una fiducia intrinseca nelle loro capacità… Avevano più soprannomi di una famiglia mafiosa — Two Star, Dirty Shirt, the Silver Fox, Speedy, Ten High, Wandering Jew, Pete the Tramp… Uno dei miei amici, uno scozzese, aveva lavorato come linotipista in ogni luogo del mondo in cui si parlava inglese.
Il dominio della linotype nel mondo della stampa cominciò il suo declino negli anni Settanta, quando dalla composizione tipografica a caldo (quella tramite matrici e piombo fuso) si passò a quella a freddo, o fotocomposizione, tramite il computer. Ma l’importanza della linotype non è mai stata sminuita: l’azienda ha digitalizzato i propri caratteri tipografici e li vende (gran parte del pacchetto linotype è stato licenziato ad Adobe, per esempio), e la macchina è diventata protagonista di un documentario sul suo funzionamento e la sua storia.