Itabolario: Breccia (1870)
Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)
di Francesco Lucioli
1870. Breccia (s. f.)
L’impresa che ci schiuse le porte di Roma non ebbe di militare che le fatiche, lo spettacolo ed il clamore: nulli i pericoli, minimi i danni, adeguata la gloria. La storia, anco la più indulgente, le ricuserà un posto tra i fasti di guerra, e sarà gran mercè se degnerà d’un pietoso ricordo i nomi de’ generosi caduti sotto le mitraglie pontificie sulla breccia di Porta Pia o in faccia agli spalti di S. Pancrazio (Guerzoni, 1870, p. 581).
Quella che potremmo considerare la prima attestazione risorgimentale della parola breccia, direttamente collegata agli eventi del 20 settembre, non poteva che leggersi nei ricordi di un volontario (autore, peraltro, delle vite di Garibaldi e Nino Bixio) che guarda senza retorica, con estrema lucidità e un briciolo di speranza, all’impresa di Porta Pia. È lo stesso sguardo di un testimone d’eccezione come Edmondo De Amicis, che dedica un capitolo dei suoi Ricordi del 1870-71 all’Entrata dell’esercito italiano in Roma:
Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. Non vi posso dar particolari […]. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido “Savoia!”; poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: “Sono entrati!” […]. La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti (De Amicis, 1898, pp. 110-2).
Non stupisce dunque che la prima attestazione letteraria del lemma in accezione moderna si legga nelle pagine del libro Cuore (1886), nella descrizione di una parata militare; De Amicis non può qui fare a meno di ricordare «i bersaglieri, l’antico dodicesimo battaglione, i primi che entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia, bruni, lesti, vivi, coi pennacchi sventolanti». Se la breccia di Porta Pia, in Cuore, è descritta già come un ricordo radicato nella coscienza collettiva (e indelebilmente collegato proprio al corpo dei bersaglieri: cfr. Rati, 2009), nei Viceré (1894) di Federico De Roberto il lettore è nuovamente catapultato nel pieno della concitazione generata dalla notizia dell’impresa:
Dopo due o tre minuti riapparve don Blasco, pallido in viso, correndo e agitando un pezzo di carta: “È nostra!… È nostra!…”. “Chi?… Che cosa?…”. “Venite!…” esclamava il Cassinese allungando il passo e ansimando. “Al Gabinetto! Roma è nostra! La breccia è aperta!…” […]. Salito […] sopra una seggiola, il monaco lesse col suo vocione: “Firenze, ore 5 pomeridiane: Onorevole d’Oragua, Catania. Oggi alle ore dieci antimeridiane, dopo cinque ore di cannoneggiamento, truppe nazionali aprirono breccia cinta di Porta Pia… Bandiera bianca alzata su Castel Sant’Angelo segnò fine ostilità… Nostre perdite venti morti, circa cento feriti…”. E un urlo si levò tutt’intorno.
Snodo fondamentale del percorso verso l’Unità d’Italia, benché non tutti ritenessero che «la breccia di Porta Pia fosse precisamente uno dei mezzi morali per aver Roma» (Jacini, 1879, p. 79), il 20 settembre 1870 rappresenta uno spartiacque cronologico privilegiato per la storiografia moderna e, necessariamente, anche per la storia dello Stato della Chiesa (non a caso è indicato come l’«ultimo giorno del papa re»: Di Pierro, 2007); ma questa data, rapidamente entrata nell’odonomastica, oltreché un punto di arrivo è anche un punto di partenza per la storia successiva, tanto da poter parlare di «eredità della breccia di Porta Pia» (Nenni, 1971). Da subito argomento per azioni drammatiche (Ciampini, 1871), per vari poemi (fra cui un curioso testo scritto dal figlio di Giuseppe e Anita Garibaldi: Menotti Pastorello, 1911) e per il primo film proiettato pubblicamente in Italia (La presa di Roma di Filoteo Alberini, uscito il 20 settembre 1905), e quindi paradigma della moderna storiografia, breccia acquisterà un significato peculiare, immagine concreta di quel far breccia che Algarotti (1779, p. 144) aveva inserito nel suo repertorio di termini militari. Attestato fin dal 1566 (Ulloa, 1566, p. 78r), nel significato di «apertura fatta in un’opera di fortificazione», il lemma, derivante dal francese brèche (di origine germanica), è alla base di alcune fortunate locuzioni e frasi idiomatiche (anch’esse spesso di origine francese e talvolta retrodatabili): fare (aprire) breccia nel cuore (nel petto, nell’animo, nella mente) di qualcuno “fare buona impressione, far innamorare” (per far breccia nel cuore: Siri, 1655, p. 228; per far breccia nel petto: Birago Avogaro, 1650, p. 401; per far breccia nell’animo: Siri, 1652, p. 993 – ma già, come traduzione dal francese, in Causino, 1648, p. 686 –; per far breccia nella mente: Correr, 1638-41, p. 354); essere (stare, rimanere) sulla breccia “mantenere le proprie posizioni” – ma essere (ancora) sulla breccia “esercitare (ancora) al meglio la propria attività”; morire sulla breccia (nel compimento del proprio dovere), già attestato in NDI, s. v. Montgommery, e cadere sulla breccia (presente, con lo stesso significato, già in un articolo anonimo dedicato a Cavour e apparso su “L’età presente. Giornale politico-letterario”, I, n. 14, 2 ottobre 1858, p. 214).