La sera che il PdL ha perso Milano
No, non lunedì: giovedì, in piazza del Duomo, come ricostruisce l'inviato del Post
di Ivan Carozzi
Sopra le grandi guglie, alle otto e mezzo di sera, si nota un cielo limpidissimo, via via paglierino, identico ad altri che hanno chiuso le ultime giornate di campagna elettorale. Zoomando sulla facciata e il secondo basamento, ecco la statua di Davide che stringe in pugno la testa di Golia. Al di là di un cielo così tenero, ci sono giornate cariche di presagio, in cui si affollano i cosiddetti segni del destino. Il giorno del concerto pro Letizia Moratti in Piazza Duomo, giovedì 26 maggio, è uno di quei giorni.
Intorno alla piazza sono state montate delle tende, bianche e blu. Mi avvicino a piccoli passi, seguendo un gruppo di piccioni. Ogni tenda è piantonata da statuari maschi alfa di origine africana. Come sulle porte d’ingresso dei negozi Zara. Portano una giacca nera, una cravatta nera, un minuscolo auricolare, e stazionano a pochi centimetri dai volontari Pdl. Qual è, mi chiedo, lo scopo di schierare questa security di colore? Di chi hanno paura? È una declinazione, di tipo ornamentale, dell’ossessione sicurezza? Dentro le tende, scopro che vengono distribuite birra chiara e focaccia genovese. Mi metto in fila, insieme agli ambulanti bengalesi, ai turisti, agli adolescenti di Rozzano e Calvairate accorsi oggi per Gigi D’Alessio. Poi, con birra e focaccia, prendo a deambulare per la piazza e il sagrato, tra palloncini Pdl, chiacchiere sentimentali di señoritas sudamericane, fino a quando mi viene il dubbio di avere tra le mani un goffo prodotto di marketing elettorale, finalizzato alla stimolazione degli istinti primari: il pane, la fame. Come ai tempi antichi di Achille Lauro. Trovo un cestino e mi libero della mia quota di aperitivo gratis. Se avessero distribuito dei dolci, dei muffin, l’introiezione del cibo avrebbe potuto favorire un legame associativo tra Letizia Moratti e la dolcezza, penso. Ma perchè la focaccia genovese? Che cosa rappresenta? Come ‘zingaropoli’, le stanze del buco, le accuse di furto d’auto e di simpatie con Prima Linea a Giuliano Pisapia, anche la focaccia genovese galleggia nello scarico di una campagna elettorale folle, sconcertante sotto il profilo dell’allestimento, della comunicazione, oltre che per i toni, la contraddittorietà psicotica e l’aggressività espresse.
Il concerto di D’Alessio non è ancora iniziato. Decido di scomparire per mezz’ora al piano interrato della libreria Mondadori. Emil Cioran: “Improvvisamente vedo scavarsi un baratro vertiginoso, come un pozzo interminabile che sprofondasse alla ricerca di un’acqua introvabile, che scavasse se stesso a una velocità allucinante”. Quando torno, sul palco, c’è Bryan Ferry. Perché Bryan Ferry? Quando è stato scritturato? Ma soprattutto: dov’è Gigi? Intorno, la piazza è occupata a piccole macchie da un pubblico assente, scollegato, nonostante le due baiadere sul palco, nonostante ‘Don’t stop the dance’, un pezzo in cui la città della moda, del socialismo glamour, degli eterni anni ’80, potrebbe positivamente rispecchiarsi e fare autobiografia. Invece niente, per quanto tra le poche bandiere Pdl, ne sventoli una con un garofano rosso in campo bianco. Dove sono i militanti arrivati con i pullman da mezza Lombardia? Perché non partecipano, non fanno sentire il loro appoggio, il calore umano alla coalizione che sostengono? Un uomo alza uno striscione ferito a morte da un catastrofico errore ortografico: “Grazie Letizia. I tuoi amici ha 4 zampe”. Doveva essere una festa, ma prevale la quotidiana, depressiva Piazza Duomo raccontata, con approcci differenti, dalla Lega e dallo scrittore Antonio Moresco: i gruppetti multietnici, la solitudine, le bottiglie di birra sparse tra i gradini del sagrato. Sul palco, dopo Bryan Ferry, salgono Iva Zanicchi, Roberto Formigoni e la candidata Moratti. Il sindaco uscente attacca un ‘Vi voglio bene, a tutti, Milano ti voglio bene’, che ristagna un po’ nel vuoto immenso, senza trovare sponde affettive in una piazza apatica e dissociata. ‘O’ mia bela madunina’, canta Iva Zanicchi, accanto al sorriso anchilosato di Roberto Formigoni. La piazza non canta, divorzia, è un’amante spenta e un po’ impasticcata. La Zanicchi prova a lanciare ‘‘O sole mio’, ma s’infittisce il silenzio, si apre un piccolo baratro dal quale la Moratti fugge, allontanandosi d’emblée verso le quinte. Siamo a un passo dai singhiozzi, dalle mani nei capelli. E allora: “Che cosa abbiamo fatto? Che cosa abbiamo combinato? Perché non ci vogliono più bene?”, è la serie battente d’interrogativi che mi gira in testa, dopo essermi identificato nella terribile perturbazione emotiva, per quanto camuffata, che sta andando in scena sul palco Pdl.
Provo, affacciato alla rete metallica che divide il retropalco dalla piazza, ad intercettare qualcuno dell’organizzazione, degli orchestrali in attesa di salire sul palco, uno steward, per avere notizie di Gigi, ma tutti appaiono, come direbbe Nicole Minetti, brieffatissimi. “E che ne so?!”, “Pensa che sia autorizzato a risponderle!?”, “Ma che te frega?! Che vuoi sapere?!”, e così via, in una collezione di pronunciamenti esclarrogativi, cioè sospensivamente esclamativi ed interrogativi. Appare così, più concreto e plastico che mai, il rapporto sempre strategico, condito da una certa maleducazione, di una certa parte politica con la verità. Appare anche la consapevolezza bruta, da parte di una certa parte politica, di avere nuovamente e fatalmente toppato, di una breccia insospettabile apertasi nello strato di permafrost depositato in vent’anni di amministrazioni di centrodestra.
Mi metto a parlare con una ragazza. Anche lei non sa nulla di Gigi, “ma quelli dello staff nel retropalco”, mi dice, “m’hanno detto che se non viene, è per colpa di Facebook e dei centri sociali”. Colpa di Facebook e dei centri sociali. La versione viene ufficializzata da Red Ronnie, sul palco, nel corso di una telefonata con Gigi D’Alessio, di cui si afferra pochissimo, anche a causa della voce gracchiante e stremata di Red Ronnie. Sbuca Ignazio La Russa, gocciolante di sudore. Il volto, al solito, è demoniaco, ma accentuatamente sgangherato, fuori controllo. Fa giurare a Gigi che in caso di vittoria dovrà tornare a cantare a Milano. Per cui le contestazioni dei leghisti all’annunciata presenza di D’Alessio vengono insabbiate. Pazienza. “La musica non ha colore”, grida Red Ronnie. La serata zoppica ancora, fino all’esibizione della romena Alexandra Stan e del successone eurodance ‘Saxobeat’. Negli intervalli Edoardo Sylos Labini, attore della soap ‘Vivere’, legge alcuni testi che celebrano quadretti alla Zygmunt Bauman (“Ho quarant’anni, sono le otto di sera, sono ancora in ufficio, davanti al computer, con un piatto di sushi, però amo il mio lavoro e la mia vita”). I testi vengono proiettati su di un maxischermo, utilizzando spesso caratteri arancio, cioè il colore sociale della campagna di Pisapia. Errore da matita rossa. Poi, sul finale, una crudele, magnifica musica barocca (Friedrich Händel?) amplifica l’impressione di aver appena assistito alla disintegrazione di un mondo, alla sequenza accelerata di un crollo endocrino, di un volto che si riempie improvvisamente di rughe, solchi, zampe di gallina. O almeno, per un istante assolutamente pazzesco, così è sembrato.