Itabolario: Nazione (1861)
Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)
di Massimo Arcangeli
Itabolario è una raccolta di 150 parole che raccontano la storia dell’Italia unita, una per ogni anno dal 1861 al 2011: il libro, pubblicato dall’editore Carocci, è stato curato dal linguista Massimo Arcangeli ed è ricchissimo di storie e informazioni. Il Post da oggi ne pubblica per un mese una selezione, una parola al giorno.
1861. Nazione (s. f.)
Il 17 marzo, con la pubblicazione della notizia sulla “Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia” (già “Foglio Ufficiale”), viene proclamato il nuovo regno. Il parlamento torinese aveva appena approvato la relativa legge, composta di un unico articolo («Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia»). A pronunciarsi prima il Senato (28 febbraio) e, due settimane dopo, la Camera dei Deputati (14 marzo), la prima dell’Italia unita. L’11 marzo, all’atto della presentazione del progetto legislativo, il Cavour aveva parlato dell’Italia come di una “nobile nazione” già unita nella “stirpe”, nella “lingua”, nella “religione”, oltreché nel passato doloroso e nel futuro di una completa riscossa («le memorie degli strazi sopportati e le speranze dell’intero riscatto»); quel paese, dopo tre secoli di servaggio («forestiere e domestiche tirannie»), si era finalmente risvegliato e si apprestava a diventare “uno” anche «di reggimento e d’istituti» (Cavour, 1973, p. 412). Entusiasta dello storico evento la “Lombardia” (“Giornale ufficiale per la pubblicazione degli Atti Governativi e l’inserzione di Atti Giudiziari”), che il giorno stesso del voto favorevole della Camera lo aveva così salutato nell’articolo di fondo dell’edizione serale:
Chi potrebbe dire le lagrime che costarono all’Italia le dominazioni dei passati Re, e la letizia che oggi le desta quest’uno, acclamato, applaudito, adorato da 25 milioni di Italiani, dai 22 liberi non meno, che dai tre ancor soggetti ad abborrite dominazioni? Nessun grido mai si poté chiamare grido di popolo più propriamente di quello che oggi sorge da tutti i petti italiani. Viva Vittorio Emanuele II Re d’Italia!
Più tiepida, cerchiobottista e maldestra (sospesa tra fedeltà dinastica e “legittimo orgoglio” nazionale), il giorno dopo la pubblicazione della legge sulla neonata “Gazzetta”, l’apertura del quotidiano torinese “L’Opinione”:
Il Regno di Sardegna è oggi finito: esso non è più che una grande e splendida reminiscenza storica: grande per l’altezza a cui il Regno era salito colla perseverante opera de’ suoi principi e pel credito che avea acquistato nel consesso degli Stati europei; splendida, per l’influenza che il Regno ha esercitato sugli altri popoli della penisola coll’esempio delle libertà non abusate, col rispetto alle leggi, col sentimento profondo del dovere e colle virtù militari. Ma noi fortunati che assistiamo ad una delle più mirabili evoluzioni storiche! Il Regno di Sardegna scompare, ma sorge il Regno d’Italia; il Re di Sardegna cessa, ma diventa Re d’Italia. In questa politica trasformazione, n[é] VITTORIO EMANUELE n[é] i suoi popoli subalpini hanno a rinunciare alle antiche loro tradizioni. Una augusta dinastia che conta otto secoli di vita, si ritempra nel suffragio popolare, e sposa il diritto legittimo col diritto nazionale, riunisce il passato all’avvenire, ed impernia il trono d’Italia sopra i due grandi principii, che hanno l’ossequio e la venerazione de’ popoli. […] Il Piemonte può ben scomparire come Regno di Sardegna, sicuro nella sua coscienza di aver adempiuto la sua missione e contribuito a preparare i nuovi destini dell’Italia e dell’augusta dinastia, che per tanti secoli ci resse ed a cui ci legano indissolubilmente i vincoli dell’amore e della fede e le memorie incancellabili dei dolori e delle gioie che abbiamo con essa divisi: VIVA VITTORIO EMANUELE II RE D’ITALIA!
In latino classico natio, oltreché “nascita”, “tipo, genere”, “categoria, razza” (anche di animali), riassumeva in sé varie altre accezioni, tutte concrete, riferite ad ampi o più ristretti insiemi di persone, accomunate dalle origini familiari (“stirpe”), dalla posizione occupata nella scala dei valori economico-sociali (“ordine, classe”), dal perseguimento di un determinato ideale o obiettivo, anche partigiano o disonesto (“genia, setta”), dall’appartenenza a una comunità urbana o rurale (“tribù”), un’entità etnico-linguistica, un’intera popolazione. L’italiano nazione, documentato fin dal Duecento, ha recepito tutti questi significati, aggiungendone via via altri. «[N]uovissimo e rilevantissimo», durante il triennio rivoluzionario (1796-99), quello di «comunità umana che, sul fondamento dei valori etnico-geografici e storico-culturali […], si dà una struttura politica statale – e in ciò richiama Stato, appunto, e repubblica –, cui può riferirsi una parte dei connotati etico-politici […] propri di patria» (Leso, 1991, p. 219). Il processo d’identificazione fra i due concetti di patria e nazione, già avanzatissimo a quest’altezza cronologica, nel 1861 può dirsi finalmente concluso; identico, con il raggiungimento dell’Unità, il «referente politico-geografico: l’intera Italia rinnovata nelle sue istituzioni politiche – dove l’elemento geografico e quello politico sono rigorosamente interdipendenti, poiché l’allargamento dell’area di nazione a tutta l’Italia non presuppone nulla di meno di una rivoluzione politico-istituzionale» (ivi, p. 221).
Se nazione è termine antico, sono coniazioni sette-ottocentesche nazionalismo e nazionalità, nazionalizzare e nazionalizzazione, denazionalizzare e denazionalizzazione (1898, M. Morasso: GDLI-Suppl2004, s. v.; 1900, F. Crispi: Crispi, s. d., p. 371), rispetto alle quali pare sia nato con un certo anticipo nazionalista, documentato, intorno alla metà del Settecento, in Giovanpietro Bergantini (Morgana, 2003, p. 153); con l’eccezione di nazionalismo, tutte queste voci sono sconsigliate, riprese, condannate dai cacciatori di barbarismi (ancora alla fine del XIX secolo: LCI, 1890). Nazionalismo affiora peraltro in due significative lettere mazziniane proprio del 1861, pubblicate sull’“Unità Italiana” del 28 febbraio (Italia e Germania. Lettera ad un tedesco: Mazzini, 1882, pp. 258-64) e del 21 aprile (Ai signori Rodbertus, Deberg e L. Bucher, ivi, pp. 266-76). Nella prima, riflettendo sui moti del Quarantotto, Mazzini ne attribuisce sostanzialmente il fallimento – corsivi suoi, come anche in seguito – all’incapacità di comprendere «che la libertà di un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà», alla trasformazione del «sacro principio della nazionalità» in un «gretto nazionalismo» (reo di aver prodotto divisioni fra i “quarantottini” che si sarebbero rivelate fatali); nella seconda, «tradott[a] dal tedesco» e indirizzata ai tre «sedicenti liberali » che avevano replicato al suo precedente scritto, accusandolo di manifestare «“a danno della Germania una debolezza per i Croati […]” e di nascondere il suo vero fine», ribadisce con tono perentorio tutto il senso di un ideale politico permaso immutato in tanti anni di lotta: «Da trenta anni io combatto, quanto i miei poveri mezzi concedono, l’autorità che non rappresenta la giustizia, la verità, il progresso, e non riconosce come suggello il consenso dei Popoli: la combatto qualunque nome essa porti, di Papa, Tsar, Bonaparte o nazionalismo oppressore».
Positive o negative che siano state, le diverse modalità di realizzazione del nazionalismo fra lo scorcio del XIX secolo e la prima metà del Novecento, con gli attributi che potrebbero utilmente fissarle (liberale, democratico, risorgimentale, radicale, cattolico, umanistico, imperialista – tradizionalista o modernista –, totalitario: Gentile, 2009, pp. 86 ss., 123 ss.; Id., 2010, pp. 43 ss.) specie con riferimento al decennio 1912-22, sono tutte debitrici, a vario titolo, di quella «nuova idea di nazione, nuova soprattutto per la sua connessione con il principio della sovranità popolare» (ivi, p. 41), sbocciata – la Rivoluzione Francese nel mezzo – fra l’età illuministica e la stagione romantica e oggi, per molti versi, in crisi (cfr. Arcangeli, 2009b, pp. 53 ss.); da una parte la ragione laica e cosmopolita al servizio della collettività, con le sue sensibilissime corde civiche, dall’altra lo “spirito del popolo” (Volksgeist) chiamato a difesa dell’unicità della nazione, e dell’unità di lingua, cultura, costumi, tradizioni che la rendono meritevole di definirsi tale.
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