Un’altra Milano
E un'altra Italia: perché non sono solo i concerti, è il modo di pensare il mondo
Persino il leghista Matteo Salvini – già complice del coro “Senti che puzza scappano i cani, stanno arrivando i napoletani” – ha detto ieri sera ad Annozero che avrebbe preferito andare al concerto di Elio e le Storie Tese per Pisapia che a quello per Letizia Moratti a cui era atteso Gigi D’Alessio. E non per ragioni di leghismi stupidi – Salvini ha anzi cercato di ricomporre difendendo D’Alessio – ma perché lui stesso, come ha detto, preferisce “De André o Elio e le Storie Tese”.
Che Gigi D’Alessio alla fine non sia andato a suonare in piazza del Duomo è stato il compimento di un disastro di mediocrità. Le sue ragioni – minacciato a sinistra, insultato dalla Lega – non sono irrilevanti (la bolgia di insulti e volgarità che si è accanita su di lui su Facebook era abbastanza miserabile) ma quello che rimane è semplice: un fallimento dello staff Moratti su un progetto già fallimentare.
Chiudere la campagna elettorale per una città come Milano nel 2011 con un concerto di Gigi D’Alessio era una scelta di identità culturale che definisce bene cosa sia il centrodestra italiano e come quello milanese non se ne distanzi. Non perché sia un napoletano – farne un emblema politico a Napoli sarebbe stato altrettanto rivelatore – ma perché siamo nel 2011, questa è l’Italia e Milano potrebbe essere, per ragioni geografiche e storiche, un’avanguardia di modernità europea per il paese. Scegliere la melensaggine di antica tradizione o l’intelligenza creativa – alternative rispettabili per ognuno di noi, meno per chi costruisca futuro e modelli – conta e significa qualcosa.
Chi obietti – c’è sempre – che il coinvolgimento di un cantante di tanto successo e le immagini di sé date dalla candidata nelle foto come quella qui sopra siano un benemerito avvicinamento al “paese reale” fa una confusione molto colpevole. Che è quella tra il trovare gli strumenti per parlare anche ad elettori con modelli culturali diversi e adottare invece tout court quei modelli culturali. È la confusione tra il mezzo e il fine. L’amministrazione Moratti – allineandosi a un lavoro compiuto dal centrodestra berlusconiano negli ultimi diciassette anni su un terreno fertile – ha promosso una cultura e un’identità povere, arretrate e mediocrizzanti, utili a creare il consenso per le povertà umane e politiche che rappresenta. Ha accusato ogni forma di modernità e produzione culturale innovativa di presunzione, snobismo e distanza “dalla gente”, incentivando invece uno strapaese retrogrado che si trattasse di arte e innovazione o diritti delle minoranze e crescite economiche.
Adesso a Milano c’è una scelta, che non è – come sostiene Berlusconi quando parla di “diversità antropologica” col simmetrico consenso di molti a sinistra – quella di tirare una riga in mezzo e vedere chi resta di qua, con Elio e De André e l’Europa cosmopolita, e chi sta di là a fare i trenini aspettando Gigi D’Alessio e parcheggiando i SUV in doppia fila. Ma è invece – differenza saliente e che costringe a sforzi politici di cui a sinistra dovrebbero essere capaci – riuscire a spiegare il valore di quella differenza, spostare lontano quella riga, ricreare un’idea per cui legalità e illegalità non siano scelte alternative e dello stesso valore, ma che non lo siano nemmeno i comportamenti, e nemmeno le prospettive culturali. Ovvero informare, dare scelte. Che se le persone sono informate, scelgono le cose migliori, liberamente: come dimostrano gli inganni e le bugie a cui sta ricorrendo la campagna Moratti. Quello che il berlusconismo – questo è stato: disinformazione e promozione di mediocrità – ha fatto in Italia lo si può iniziare a smontare da Milano. Fate scendere quella signora, per favore, e datele una sedia.