La vita disperata del portiere Moro
«È un uomo, un mostro, un diavolo, un dannato, una vittima, un eroe, un bandito, chi è?»
di Mario Pennacchia
È uscito per ISBN Edizioni La vita disperata del portiere Moro, di Mario Pennacchia.
Il libro raccoglie le dieci parti, pubblicate originariamente a puntate sul Corriere dello Sport, del lungo racconto della sua vita che Giuseppe Moro – portiere di molte squadre di serie A tra gli anni Quaranta e Cinquanta – aveva fatto a Pennacchia, all’epoca giovane cronista del giornale. I due erano stati presentati da Antonio Ghirelli, allora direttore della testata.
Dall’Africa con nostalgia
In 10 ore, Giuseppe Moro, il leggendario portiere degli anni ’50, nel suo recente soggiorno a Roma, ci ha raccontato la sua vita, dall’epica Budapest all’esilio in Tunisia.
«Nel 1950, in tutta Italia si diceva: “Sai che Sentimenti IV è andato in Africa?” “Davvero? E a far che?” “Per diventare Moro!”. E invece in Africa il destino ha mandato me.»
«Un giorno che si giocava Roma-Juventus ero riuscito a entrare gratis all’Olimpico. In mezzo a 80 000 spettatori vennero a ripescarmi per buttarmi fuori dello stadio come se fossi un ladro.»
«Sembra che io sia stato soltanto come un fanciullo sulla sponda del mare, rallegrandomi nel trovare di tanto in tanto un sassolino più levigato o una conchiglia più leggiadra del solito, mentre il grande oceano della verità mi stava ancora inesplorato davanti»: come una scialuppa, come un alibi, la memoria lancia alla nostra coscienza questo pensiero sovrumano del superuomo Newton, mentre Giuseppe Moro – il portiere leggendario, il portiere esaltato e maledetto del dopoguerra e degli anni ’50 – da dieci ore sta raccontando la sua vita assurda, eroica e disperata e il polso ci duole per l’ininterrotto, febbrile manoscritto. La commozione e la nausea, l’indignazione, lo spasso e la vergogna confluiscono in una sensazione sola: siamo sconvolti.
La sua adolescenza. I soldi rubati al salvadanaio della nonna per comprare il pallone e la lira sottratta al pane della mensa domestica per compiacere il custode del campo e quindi sfogarsi, solo nella nebbia di un giorno qualunque dei suoi 11 anni, a calciare nella porta vuota. Le lunghe rincorse per i campi e la frutta rubata e i salti dagli alberi per sfuggire all’ira dei contadini. Le parabole aeree aggrappato a una pertica, in alto sui vigneti. Il volo dal secondo piano, inseguito dal furibondo padre Mosè, che per emularlo si frattura il femore. La giovinezza rubata dalla guerra. Il fronte siciliano, i tuffi e gli scatti da fermo per evitare i mitragliamenti aerei. Lo sbarco degli alleati. La ritirata. La fuga dopo l’8 settembre. La beffa ai tedeschi. Il ritorno a Treviso. Le nozze. La bicicletta a rate che lo costringe a restare nel Treviso. L’acconto del disonore. La Fiorentina. Il Bari. Il Torino. La Lucchese. La Sampdoria. La Roma. Il Verona. L’ostracismo di Valentino Mazzola. L’esordio strabiliante di Budapest.
L’epica partita di Londra. I Mondiali 1950 in Brasile. La cocaina. Le partite vendute. Le calunnie. La diffamazione. 46 rigori parati su 62. La risposta a Puskás. Il fallimento del bar. La vendita della casa. La miseria e la fame. La ricostruzione del portiere Barluzzi. L’ultimo rigore parato nella squadretta di Ponte di Piave. La vendita vagabonda delle caramelle. Porto Sant’Elpidio. La tentazione di suicidarsi. Cinque giorni a Roma con 200 lire in tasca. Il disprezzo di tutti. La disperazione. Le umiliazioni. Gli appelli angosciosi e inascoltati a Boniperti, Parola, Agnelli, Viani, Pasquale, Marini Dettina. Una lettera da Kef. La partenza per la Tunisia. La fuga da Ebba Ksour, sopraffatto dalla solitudine. Il ritorno a Tunisi. Le lacrime della nostalgia sul Corriere dello Sport di ogni lunedì. Alberto Moro, diciott’anni, portiere: suo figlio. Lui ci guarda, ma vede solo il suo passato. Noi stiamo frugandogli dentro ma è un incubo, un sogno, un miraggio, un’allucinazione, cos’è? Una folla di personaggi, una bufera di nomi sensazionali e insignificanti, di episodi, di follie, di trionfi, di debolezze, di spregiudicatezze, di portenti, di privazioni, di felicità, di maledizioni, ci sta dettando: chi può più distinguere? È un uomo, un mostro, un diavolo, un dannato, una vittima, un eroe, un bandito, chi è?
È una vita umana, ecco che è. Una vita tesa ai limiti estremi del bene e del male, della gioia e del dolore, della gloria e del disprezzo, della pietà e dell’empietà, del vizio e della virtù, della verità e dell’inganno. Una povera, grande, spaventosa, delirante vita. Un’agghiacciante testimonianza vissuta. L’ultimo e non ultimo esempio di come passi la squallida gloria del mondo. L’ultimo e non ultimo esempio di come l’amicizia sia una pianta tanto fertile negli agi quanto infeconda nelle angustie e nel bisogno. L’ultimo e non ultimo esempio che la sola salvezza sta nel sentimento e splende nella fede: il sentimento che nella disperazione ha dato a Moro approdo sempre sicuro nella famiglia; la fede che non gli ha mai fatto dimenticare, neanche per una sera – come egli stesso dice, spregiudicato anche in questa sublime confidenza –, «di parlare con Dio a quattr’occhi, perché quello che è l’anima lo vede e può vedere soltanto Dio».
«Lei, ora, forse può giudicarmi. Che opinione si è fatta di me?» Ce lo ha chiesto e continua a domandarcelo a intervalli, specialmente dopo una ennesima brutale rivelazione. È come un intercalare che le sue sofferenze gli hanno inciso, scavato nel cervello. Cerca un giudizio. Non più e non tanto solidarietà, forse, ma un giudizio. Con lo stesso furore e la stessa angoscia con cui per mesi ha cercato un pezzo di formaggio da accompagnare al pane. Con la stessa ira e lo stesso crepacuore con cui, a Ebba Ksour, leggeva le lettere della moglie lontana che gli diceva di star tranquillo, perché pane e formaggio anche quel giorno non erano mancati ai suoi tre figli. Cerca un giudizio. Ma chi può essere così empio da giudicare al cospetto di un uomo sopravvissuto ai tormenti più atroci che possa dare la vita, di un uomo precipitato nella fame e bandito dalla sua terra, dopo essere stato innalzato alla fama e ai successi anche oltre i confini di questa sua terra? «Lei, ora, forse può giudicarmi. E vorrei sapere come mi giudica. Le giuro sui miei figli che le ho detto la verità, dal principio alla fine. Può pubblicare tutti i nomi che le ho precisato, dal primo all’ultimo, perché non c’è una deformazione sola in tutto quello che le ho raccontato. Anzi, troppe cose avrei ancora da dire. Dunque, come mi giudica? Io lo so quello che pensa di me.
Ma per quanto possa essere grande il disprezzo della gente, io chiedo: c’è chi ha sbagliato più di me e abbia anche pagato più di me? No, non c’è. E allora, se lei non vuol rispondermi, le dico come mi giudico io: un debole e uno spregiudicato. Ma non un disonesto. No, non un disonesto. Un debole, un debole e uno spregiudicato. La mia famiglia e la mia fede sono la prova che non sono, non sono mai stato un immorale.» Quasi 150 pagine manoscritte ci stanno davanti. È il suo romanzo vivo cui nessuna parola potrà mai rendere la stessa vita. Lui contempla il vistoso, rudimentale volume e sorride. Poi spiega: «Una volta volevo scrivere il romanzo della mia vita. Avevo già pensato a come cominciarlo. Ricorda la storiella tanto diffusa negli anni intorno al 1950? Si basava sulla grande, popolare rivalità fra me e Sentimenti IV. La storiella era questa: “Sai che Sentimenti IV è andato in Africa?” “Davvero? E a far che?” “Per diventare Moro”. E invece in Africa oggi il destino ha mandato me!». Continua a sorridere, mentre siamo tutto un brivido. Avvertiamo il bisogno assoluto di distoglierci. Ma come, come? Il tentativo è imbarazzato, perché gli chiediamo quanto ancora si trattenga a Roma. «Sono venuto per due ragioni: accompagnare un mio giocatore dal prof. Zappalà e riprendere la mia famiglia che a settembre era tornata per una breve vacanza in Italia. La data del mio ritorno dipende quindi dal prof. Zappalà. Ha già visitato Nouaili, un centromediano di 19 anni, e gli ha riscontrato una “frattura muscolare”. Il professore avrebbe voluto ricoverarlo, il ragazzo si è messo a piangere, gridando: “Io Moro non lo lascio”. E così sto aspettando di riportarmelo a Béja. Potremmo anche partire domani, ma domani c’è Scozia-Italia e mi sentirei un rinnegato se non vedessi la partita almeno per televisione.» Dunque, straniero in Italia. Ma come lo è diventato?
«Nel 1962, dopo due anni di lavoro nel San Crispino, a Porto Sant’Elpidio, non fui confermato. Non sapevo cosa fare. La stagione 1962-63 stava per cominciare. Andai a dar l’esame per allenatore a Coverciano. Dopo la prova di educazione fisica, passai a quella tecnica. Foni mi domandò come me la passassi. Si parlò così, amichevolmente. Foni mi chiese come ero andato nelle altre prove. Mi incoraggiò, assicurandomi che me la sarei cavata. All’esame di medicina però crollai perché effettivamente alla domanda sulla funzionalità del cervello non seppi cosa rispondere. Così mi trovai rimandato, ma non soltanto in medicina, come temevo, bensì anche in tecnica da parte dell’amico Foni! Del mio diploma, ormai, si sarebbe parlato nel 1964. Ero distrutto. Senza lavoro, senza soldi, senza pane, senza prospettive, con moglie e tre figli grandi. Fu allora che si insinuò in me la tentazione di farla finita. Prima, però, decisi di scrivere una lettera a Bardelli. Gli scrissi che volevo spararmi. Lui mi rispose subito, scongiurandomi di non fare pazzie, promettendomi che avrebbe parlato di me al presidente della Federazione. Il San Crispino fortunatamente mi confermò. Ma dopo altri due anni, tornarono a esonerarmi. Scoppiò una sommossa fra i tifosi e dovettero perfino intervenire i carabinieri. I tifosi fecero una raccolta di firme per invalidare l’assemblea e ci riuscirono. Così dopo 15 giorni di agitazioni, fui confermato. Pur sapendo di avere molte antipatie, specialmente fra dirigenti e giocatori, accettai solo perché dovevo mangiare. Rimasi fino alla vigilia del Natale 1963.
Nel febbraio 1964, per 50 000 lire al mese, andai a Sant’Elpidio a Mare per restarvi sino alla fine della stagione. Ero di nuovo disperato. In agosto venni a Roma, per chiedere aiuto alla Federazione, anche perché il segretario del Centro Tecnico, Baccani, aveva promesso di trovarmi un posto come istruttore dei calciatori militari. Ma gli uffici della Federazione erano chiusi per le vacanze di Ferragosto. Allora andai alla Roma. Quando arrivai in viale Tiziano, il segretario Pierangeli parlando al telefono con il presidente Marini Dettina gli trasmise i miei saluti. Dettina mi fece invitare nel suo ufficio. Ci andai e lui mi disse che avrei potuto collaborare, osservando i giocatori che la Roma aveva prestato a diverse società. Gli dissi che ero disposto a svolgere qualsiasi lavoro nell’ambito calcistico. “Si faccia vedere, io intanto ne parlo con il segretario generale.” Avevo soltanto 200 lire in tasca. Ero alloggiato in un albergo vicino alla stazione, dove mi conoscevano perciò nessuno si azzardava fortunatamente a chiedermi soldi. Il segretario generale della Roma, Valentini, neanche volle ricevermi e mi negò perfino un biglietto per assistere alla partita amichevole di pre-campionato Roma-Fiorentina. Neanche Dettina volle più ricevermi. Da Roma non potevo partire perché dovevo prima saldare l’albergo. A piedi andai continuamente dalla stazione a viale Tiziano, a via Crescenzio, nella sede della Federazione. Il mangiare, qualche volta me l’offriva l’amico giallorosso Alessio. Il 24 o 25 agosto finalmente riuscii a parlare con il segretario della Federazione, Bertoldi.
Gli ricordai la promessa di Baccani e Bertoldi rimase a bocca aperta: “Ma per i calciatori militari è già stato tutto sistemato!” mi rispose. Sentii crollare tutto intorno a me. Bertoldi capì il mio dramma, mi fece firmare una ricevuta e mi consegnò 50 000 lire. 30 000 le mandai subito a casa e con le altre 20 000 saldai le spese sostenute a Roma. Mi misi alla ricerca di alcune mie vecchie conoscenze romane, finché non arrivai a parlare con l’onorevole Simonacci. Erano i giorni in cui si discuteva la partecipazione dell’Italia alle Olimpiadi di Tokyo. Simonacci riferì al dott. Pasquale e mi assicurò che il presidente della Federazione gli aveva promesso che uno stipendio per me l’avrebbe fatto saltar fuori con una sistemazione a Coverciano. Intanto, sempre l’onorevole Simonacci mi offrì un biglietto per partecipare alla crociera Civitavecchia-Cagliari-Palermo-Napoli riservata agli ex Azzurri. Ma mentre stavo per partire, mia moglie mi spedì un espresso giunto dalla Tunisia in cui mi si offriva un posto di allenatore laggiù. Monaldi, allenatore italiano a Kef, aveva fatto il mio nome, mi precipitai con questa lettera da Bertoldi. Lui inviò immediatamente un telegramma a Kef per avere conferma e garanzie e dopo sette giorni arrivò la risposta. Bertoldi fu veramente generoso.
Mi dette altre 50 000 lire per tornare a casa e farmi rilasciare il passaporto. Mi ripresentai a Bertoldi, mi consegnò un biglietto per il viaggio aereo e altre 75 000 lire. Erano le nove di lunedì 28 settembre 1964. Come faccio a ricordare? Il sacrificio e il dolore fanno cuore e memoria di pietra e ci scrivono sopra, incidono e scavano. Al terminal dell’Alitalia forse avevo la febbre. Un’oppressione, un incubo, una paura, si scatenarono dentro di me. Ma su tutto prevalse la speranza. Ero solo, volevo rendermi conto, prima di chiamare la famiglia a raggiungermi. L’aereo decollò alle 10.20. Se mi avessero detto che c’era lavoro per me in Italia, mi sarei buttato senza paracadute. Ma il ricordo di tante umiliazioni mi inchiodò alla poltrona più forte della stessa cintura di sicurezza. All’aeroporto di Tunisi trovai Di Benedetti, l’ex centravanti. Era venuto ad aspettarmi, mi accompagnò a Kef e qui mi presentò a Monsieur Bakari, delegato allo sport. Questi mi condusse a Ebba Ksour, un villaggio di 5000 abitanti, nell’interno. Mi offrirono lo stipendio base e unico per tutti gli allenatori: 150 dinari al mese, pari a circa 200 000 lire italiane, più la casa e la luce. Firmai. Avevo un appartamento di quattro stanze e come arredamento una semplice branda. La sera, come calava il sole, il villaggio appariva evacuato. Le donne, poi, non si vedevano neanche di giorno, mai. Quando rincasavo, la prima, la seconda, la decima, la ventesima sera, mi si chiudeva lo stomaco, la testa mi scoppiava, ma in Italia ero stato tanto umiliato che non riuscivo neppure a trovare la forza, la rabbia, la debolezza di una lacrima. Io la nostalgia non la conoscevo.
Ora non la auguro a nessuno di quanti mi hanno fatto del male. Dopo un mese non seppi resistere, anche perché i soldi non si potevano spedire e la mia famiglia ne aveva urgente bisogno. Ripresi la mia roba e tornai, portando con me 75 000 lire, tutto quello che avevo. Ma, una volta a casa, mi accorsi che ero una bocca in più da sfamare. E poiché avevo il biglietto andata-ritorno, mi feci coraggio e ripartii. Com’è Ebba Ksour? Come un villaggio veneto del 1930: desolazione e miseria. Comunque, mi acclimatai piano piano. Mi feci fare l’abbonamento al numero del lunedì del Corriere dello Sport e la prima volta che il giornale mi arrivò, l’avrei baciato. Lessi, che dico, divorai tutto. Imparai a memoria certi titoli. Lessi la pubblicità, come se fossi stato un uomo d’affari. Italia, Italia, a quei semplici fogli di carta stampata s’era ridotta per me! Mia moglie mi scriveva continuamente per tranquillizzarmi, ma leggere che pane e formaggio riuscivano ancora a trovarli, per poco non mi portò alla pazzia. Volli la mia famiglia con me e venni a prenderla in occasione delle nozze di mia figlia Mirella. E così, con mia moglie e gli altri due figli, tornai a Ebba Ksour. Nel breve soggiorno in Italia nemmeno tentai più di trovare una sistemazione qui. Mi trattenne soprattutto il ricordo di questa azione, fra le tante. Ero riuscito a entrare all’Olimpico, un giorno che si giocava Roma-Juventus, grazie alla compiacenza di una maschera che mi aveva riconosciuto. Ebbene, in mezzo a 80 000 spettatori vennero a ripescarmi per buttarmi fuori dello stadio come un ladro. “Mi perdoni, Moro” mi disse la maschera “ma se lei non esce io perdo il posto.”
Uscii disgustato. Fu il dirigente Agostino Rosa che, appena mi vide, mi rincorse fuori dei cancelli per darmi un biglietto. Perciò, come potevo, con questi ricordi, rivolgermi e sperare ancora nella comprensione in Italia?» Un momento, Moro, si interrompa un attimo: facciamo una telefonata a Rosa. Pronto, Agostino? C’è qui Moro, vorrebbe salutarti. Fra l’altro, ha raccontato un episodio… «Scommetto che ha ricordato quando venne buttato fuori dall’Olimpico!» Esattamente, Agostino. Ciao, te lo passo. Una telefonata amarissima, per Moro, ce ne rendiamo conto solo quando ci assale il sospetto che lui possa aver pensato che, increduli, abbiamo cercato la conferma di una testimonianza. Ma la telefonata passa e va. E lui riprende il racconto del suo romanzo vissuto.
«Tornai a Ebba Ksour. La squadra disputava il campionato di III categoria. Arrivammo al sesto posto, ma vivemmo due giorni di gloria quando eliminammo dalla Coppa di Tunisia il Keruan e lo Stade Tunisien, due squadre di i categoria. A fine anno, grazie all’amico Bakari, passai al Béja, la squadra di una città di 50 000 abitanti a 100 km da Tunisi. È qui che adesso mi trovo. Qui è già un’altra cosa. Intanto la vita non è cara, perché con 500 lire si compra un chilo di filetto. E poi ci sono tanti italiani, tutti interisti come del resto interisti sono tutti gli sportivi tunisini, anche perché a Tunisi la televisione trasmette soltanto i programmi italiani del primo canale. Io lavoro dalle 8 del mattino alle 23, perché la sera tengo lezioni teoriche e disbrigo pratiche in società. Alleno da solo cinque squadre per un totale di 120 giocatori: dai “minimi” ai cadetti, dagli juniores alle speranze e ai titolari che giocano in ii categoria e sono a metà classifica. I giocatori mi seguono e mi apprezzano, ma mi considerano soprattutto uno che finalmente paga un debito e rispetta il loro diritto di sapere e di essere uguali agli europei. Ecco, questa oggi è la mia vita. E tenga presente che per una legge tunisina, anche se laggiù diventassi per assurdo un miliardario, in Italia non potrei mai riportare neppure 100.000 lire! Perciò, ecco la mia condanna, la mia maledizione: vivere sperando fino alla morte in Tunisia oppure tornare in Italia e morire di fame e di disperazione.»
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Pennacchia è giornalista e scrittore; come cronista sportivo, ha collaborato con il Messaggero, il Corriere dello Sport e la Gazzetta dello Sport, di cui ha diretto la redazione romana. Dirige il mensile L’ Arbitro. È stato consulente del presidente della FIGC e responsabile della comunicazione della S.S. Lazio. È autore di Gli Agnelli e la Juventus, Lazio grande Lazio, Il calcio in Italia, Football Force One. La biografia ufficiale di Giorgio Chinaglia, L’amore scosso, Anche i ragazzi hanno fatto la storia, Il Generale Vaccaro, Oltre il suono della campanella.