La Spagna ci riguarda
Cose da sapere per capire la giornata elettorale e le proteste nelle piazze
di Filippomaria Pontani
Il fenomeno delle piazze spagnole è forse la migliore notizia del 2011 in Europa. Da oltre un mese, in vista di elezioni amministrative che domani sanciranno la débâcle del Partito Socialista al potere, la Spagna si sentiva schiacciata fra le misure draconiane di ristrutturazione dello Stato sociale decise da Zapatero dietro il diktat di BCE e FMI, e criticate dal Partito Popolare solo in quanto tardive, e le continue, desolanti notizie di scandali, indagini e corruzione (i casi Gürtel, Brugal etc.) a carico di una parte importante degli esponenti (e, che è peggio, dei candidati) di ambedue gli schieramenti principali, anche tra i principali collaboratori di Rajoy. Per di più, la stessa uscita di scena di Zapatero, salutata da molti come una scelta di responsabilità, ha rappresentato per i più scettici l’irresponsabile consegna del Paese a un oggettivo vuoto di potere, e la consegna del partito a una lotta di successione che è facile prevedere, a urne chiuse, asperrima.
Abbiamo dunque in sintesi i punti salienti della crisi del sistema spagnolo:
1. scarsa credibilità delle classi dirigenti
2. disoccupazione galoppante (prevista al 20% almeno fino al 2013, con aumento esponenziale dei contratti a termine e del precariato)
3. asservimento preventivo alle logiche e alle politiche imposte dai centri decisionali del capitalismo internazionale
Dinanzi a questo quadro poco consolante il Paese ha reagito con manifestazioni pacifiche e spontanee, che non si vogliono “anti-sistema”, ma che (sin dal loro manifesto) denunciano con forza – nell’intento di cambiarli – i punti di maggiore sofferenza del sistema stesso (oltre a quelli citati, la minaccia alla libertà d’informazione, l’aumento delle disuguaglianze, la titubanza nella politica energetica, la perdurante ingerenza della mano ecclesiastica nella vita civile).
Alla Puerta del Sol, centro pulsante della movida madrilena, non si sono riuniti facinorosi punkabbestia o anarchici derelitti: conformemente a una tradizione che vede mescolarsi ogni sera nei luoghi del divertimento fiumi di persone di diversa estrazione e di diversa età (c’è da chiedersi in quali città d’Italia ciò avvenga in una misura paragonabile, o semplicemente con uno spirito paragonabile), anche nel momento della protesta lo slancio è stato comune, inclusivo e non esclusivo. È anche per questo che le forze dell’ordine non sono intervenute a sgomberare (e ci si augura lo stesso avvenga quando cambierà la leadership politica); è anche per questo che non si può non guardare con favore a quella che rischia di diventare – dopo il precoce declino del movimento no-global – la prima mobilitazione di massa della gioventù degli anni Duemila.
Ma non è appunto un caso che tutto questo parta dalla Spagna: l’impressione di chi soggiorni anche episodicamente in quel Paese non è solo quella di un posto dove funziona molto bene tutto ciò che da noi stenta (i treni, i servizi, le scuole, gli ospedali: in certi casi si prova un sincero imbarazzo nel paragone, dall’internazionalizzazione delle università di Barcellona alle linee della stazione di Siviglia, dall’Hospital Virgen de la Vega di Salamanca ai mille musei di Madrid), ma anzitutto quella di una comunità dove dopo la fine del franchismo è stata creata, con fatica ma con determinazione, una coscienza condivisa. Basta guardare i muri di Badajoz, o il progetto di ampliamento del già visitatissimo Archivio generale della Guerra civile (ospitato proprio in quel di Salamanca, il centro operativo di Franco) per rendersi conto del grado di elaborazione e di consapevolezza del recente passato (mentre da noi si litiga sul 150enario, e il Museo di via Tasso a Roma è minacciato dai tagli); basta entrare per sbaglio nell’edificio antistante il monastero delle Descalzas Reales a Madrid e scoprire (for free) con quale intuito si rifletta sulla figura femminile in una splendida e affollatissima mostra dal titolo “Heroínas” (anche qui, il paragone con il bunga bunga è tanto inevitabile quanto impietoso); basta passeggiare per caso davanti all’Istituto Cervantes, e scoprirvi (pure gratuitamente) un dossier fotografico e giornalistico sulle grandi catastrofi dimenticate del pianeta, progetto guidato fra gli altri da Mario Vargas Llosa (“Testigos del olvido”). Viva Zapatero?
Nessuno dirà che è solo merito di Zapatero, anche se il contributo di questo controverso leader, che negli anni passati si è molto speso sul piano dell’assistenza ai deboli e alle famiglie, della laicità e della memoria, è stato indubbiamente rilevantissimo: ciò che conta è che in Spagna si sono create, anche grazie agli interventi della politica, le condizioni per una critica severa e non ideologica della politica stessa e del sistema. In parte, ma con numeri e consapevolezza forse minori, è accaduto lo stesso in Portogallo; in parte, ma con la consueta ipoteca dell’anarchismo e dei moti violenti di piazza, è accaduto lo stesso in Grecia. Ma l’urgenza della protesta spagnola dovrebbe apparire lampante a chiunque abbia a cuore il nostro domani: è infatti chiaro che il meccanismo-domino Grecia-Irlanda-Portogallo è sul punto di attaccare i pesci grossi, tra i quali l’Italia occupa secondo molti la seconda fila. Pia illusione quella di chi, cullato dalle rassicurazioni di questo o quel ministro, pensa di essere “al sicuro”: lo pensavano per anni anche i Portoghesi.
Il caso della Grecia è illuminante: il famigerato “memorandum” destinato a salvarne i conti ha di fatto interamente commissariato la politica del Paese, consegnando il governo a una trojka formata da Commissione Europea, Banca Centrale e Fondo Monetario Internazionale. Tralasciando ogni sarcasmo sulla momentanea acefalìa di due di queste tre istituzioni, si tende oggi a dimenticare che il “memorandum”, mentre ha imposto in solido duri sacrifici (taglio salariale del 20% a quasi metà dei lavoratori; abolizione di tredicesime e benefici che per le tasche dei Greci – visti i livelli retributivi – non erano in alcun modo un di più; blocco sostanziale degli investimenti pubblici; aumento della disoccupazione al 16%; proliferazione di contratti “atipici” in direzione di quella che la stessa ministra del Lavoro Katseli definisce una “giungla”), votava la propria efficacia alla condicio sine qua non di un rapido aumento del PIL, obiettivo ben difficile da centrare in un simile contesto. Acclarata l’impossibilità del gioco, si mercanteggia ora su dilazioni, ristrutturazioni, tosature, re-styling, re-profiling, vincolando ogni ulteriore sostegno a un massiccio programma di tasse (patrimoniale sopra i 400000 euro), di licenziamenti (almeno 150000 “uscite” dal settore pubblico, che per inciso non è particolarmente sovradimensionato rispetto al nostro o a quello francese), di tagli salariali (-20% per il salario minimo dei giovani), di privatizzazioni (l’ente nazionale delle Telecomunicazioni; l’aeroporto di Atene; i casinò): un programma che il primo ministro Papandreou porterà la prossima settimana in consiglio dei ministri (suscitando anche tra i socialisti sussurri di dissenso che in Parlamento rischiano di diventare rumori), e che – facile previsione – servirà soltanto a far fare un altro giro alla coclea infinita del prestito, in attesa di un miracolo cui nessuno crede davvero. Più concretamente, basta leggere i dati ufficiali dell’INPS greca (163000 domande di pensione che nessuno sa né come gestire, per mancanza di personale, né come soddisfare, a fronte di mancati introiti contributivi per miliardi di euro) per rendersi conto che l’assenza di una qualsivoglia autonoma iniziativa politica sta iniziando ad avere effetti devastanti sulla tenuta complessiva.
Lo pensavano per anni anche i Portoghesi. Corre voce che in Portogallo, dove il 5 aprile scorso il Diario de Noticias pubblicava allarmate analisi di economisti che sconsigliavano di affidarsi al destino greco (e l’indomani il premier Sócrates impetrava a Bruxelles proprio quel trattamento), abbiano semplicemente scaricato dal sito del FMI il power point del memorandum concepito per Atene, in vista di un’applicazione che si profila non meno rischiosa e gravida di incognite, o forse di certezze. E anche lì, in una tormentata campagna elettorale voluta da Sócrates per legittimare preventivamente il programma di lacrime e sangue (si vota il 5 giugno), si fondono la paura del futuro, il sospetto nei confronti della classe dirigente poco nuova, e la spada di Damocle dell’uscita dall’euro. In un appassionato articolo di qualche settimana fa, mentre l’Iberia metteva sei squadre su otto nelle semifinali di Coppa e le agenzie di rating retrocedevano d’ufficio entrambi i Paesi della penisola pentagonale, un grande vecchio del socialismo europeo come Mario Soares metteva in guardia dai rischi dello sfaldamento del castello europeo, e soprattutto dall’adesione supina al modello neo-liberale prevalente nell’Europa che conta, dall’adesione ai diktat di quello che è indubbiamente, sotto varie forme, il cuore di quel mondo: un sistema bancario troppe volte corrotto e troppe volte salvato, troppe volte complice e troppe volte immune, ripetutamente messo in discussione eppure continuamente finanziato (alle banche infatti, e non agli stati, arrivano dopo complicati passaggi i fondi di “solidarietà” erogati dagli enti internazionali).
Ecco: forse la sfida della sinistra europea dovrebbe stare proprio qui: nel capire che il destino di Grecia, Portogallo, Spagna, al di là dei sentimentalismi che troppo facilmente vengono disprezzati, non riguarda un sottoscala del condominio ma concerne tutti gli inquilini (perché quello è il nostro condominio, non quello scalcinato dell’altro quartiere, come era per i moti di piazza Tahrir); nel rivendicare un ruolo alla politica (dunque, alla democrazia) e pertanto nel non regalare la protesta contro un sistema che palesemente non possiede le energie o l’onestà per autoriformarsi (qualcuno ricorderà i promettenti propositi riformisti di Sarkozy e Obama nel 2008, celermente inghiottiti dal “come prima meglio di prima”) alle frange estreme dell’arco politico, alla giurassica propaganda che mira alla collettivizzazione dei mezzi di produzione (PCP in Portogallo, KKE in Grecia, IU in Spagna), oppure al solipsistico qualunquismo dell’antipolitica fine a se stessa. Abbiamo nelle piazze spagnole e nella “Democracia real ya” un modello di protesta chiara, spontanea e in cerca di interlocutori credibili: è un compito urgente dei grandi partiti progressisti – o almeno dei più presentabili fra i loro leaders – prestare ascolto a quelle istanze e tradurle in agenda politica prima che sia troppo tardi.