Le migliori dieci canzoni di Bob Marley
State passando tutto il trentennale a sentire reggae a palla e, eccetera?
Oggi, 11 maggio 2011, è il trentesimo anniversario della morte di Bob Marley, di cui il Post pubblica la personalissima scelta di canzoni contenuta in Playlist, il libro antologia di Luca Sofri, il peraltro direttore del Post.
Bob Marley (1945, St. Ann, Giamaica – 1981, Miami, Florida)
Bob Marley si faceva una quantità formidabile di canne e adorava giocare a pallone: tre anni prima di un memorabile concerto a San Siro si era ferito un piede durante una partita. Da quella ferita si sviluppò un tumore maligno che avrebbe richiesto un’amputazione: lui si rifiutò, per motivi religiosi, e finì per morirne. Aveva 36 anni. Anni prima gli avevano sparato, a casa sua in Giamaica. Disse di sapere chi era stato, ma di averlo perdonato. Al suo funerale parteciparono assieme il primo ministro e il leader dell’opposizione. Sta sepolto con la sua chitarra Gibson, una bibbia e un po’ di marijuana. Hai visto mai.
I shot the sheriff (Burnin’, 1973)
Lui ha sì ammazzato lo sceriffo, ma il vicesceriffo no. E poi lo sceriffo gli rompeva sempre i coglioni, e non lasciava che lui facesse crescere ciò che aveva seminato. In senso metaforico o no. (Poi ebbe gran fortuna cantata da Eric Clapton, nel 1974).
Stir it up (Catch a fire, 1973)
Per anni di candore adolescenziale mi è rimasta addosso la convinzione che lui le chiedesse di stirargli le camicie. Naturalmente le chiede ben altro, con abbondanza di metafore convenzionali (placa la mia sete, raffredda i miei bollori, cose così). L’aveva scritta nel 1967 e divenne un successo in Inghilterra cantata da Johnny Nash.
No woman no cry (Natty Dread, 1974)
Non si è mai capito chi l’abbia scritta, ché le vicende giamaicane legate alla gavetta di Marley sono un po’ confuse: se sia stato Marley stesso, il suo amico Vincent Ford che ne è l’autore ufficiale (ma per alcuni Marley gliene regalò i meriti per dargli una mano), o i due assieme. In inglese corretto il titolo significherebbe che senza donne non si piange: ma lo slang giamaicano usa “no” per “don’t”, “non piangere, donna”. È il più grande successo di Marley, la più famosa canzone reggae e uno dei più grandi esempi di che-je-fa-a-‘na-canzone la versione live (ce ne sono esecuzioni diverse in molti dei vari dischi live di Marley).
Jamming (Exodus, 1977) Bob Marley torna sulla terra per sei minuti: cosa gli chiedete? Di fare “Jamming”. Era il numero maestro dei concerti di Bob Marley, una delle cose più coinvolgenti che si siano mai viste dal vivo. Merito di un gran ritmo festaiolo e di un messaggio che mescolava aspirazioni religiose e desiderio di spassarsela. Il termine “jamming” è andato significando varie cose, ma la sua accezione principale si riferisce genericamente allo stare bene: la canzone è diventata manifesto dello stonamento universale. La versione in Babylon by bus è la migliore.
One love (Exodus, 1977) La via giamaicana al gospel, incisa dai Wailers già nel 1963 e ispirata da “People get ready”: dovrebbero cantarla nelle chiese la domenica mattina, se volessero combattere davvero la crisi delle vocazioni. “One love, one heart Let’s get together and feel all right” In realtà accanto al messaggio di fratellanza e bontà, lancia strali nei confronti dei portatori del male (“chi ha ferito l’umanità solo per proteggere le sue idee?”) e minacce terribili (“non esiste scampo dal Padre Creatore”). Ma noi siamo i buoni, non c’è da preoccuparsi.
Is this love (Babylon by bus, 1978)
Anche di questa, portatevi a casa la versione in Babylon by bus, e mettetela a palla in soggiorno: poi trovate una ragazza, che tanto al pane e al resto pensa Jah. Ma anche senza pane, ragazza e Jah, è una pacchia. Il video che ne fu fatto nel 1978 mise per la prima volta davanti alle telecamere Naomi Campbell, che aveva sette anni. “Love-lo-ve-love-that I’m feeling…”.
Ride natty ride (Survival, 1979)
L’apocalisse che si porterà via i malvagi è resa un po’ meno terrificante dall’andamento della canzone, buono al massimo per farsi tutti assieme un bagno in mare, devoti e peccatori. E “go deh!” pensavo lo potessero dire solo i livornesi che commerciano col campo Darby.
One drop (Survival, 1979)
“They made the world so hard, everyday the people are dying” Uno dei pezzi meno riprodotti di Survival, il disco di chiamata all’insurrezione africana, è quello col ritmo più eccitante e rilassante assieme (però andò fortissimo in Giamaica).
Redemption song (Uprising, 1980)
Canzoni di libertà, canzoni di redenzione. L’ultima cosa di Marley, stupenda. Meglio la versione da solo, che quella con la band: o anche la bella cover di Joe Strummer. Nell’ultima puntata della prima serie di Lost, la cantava Sawyer.
Forever loving Jah (Uprising, 1980)
“Old man river, don’t cry for me”: Marley era un uomo che conosceva i testi sacri ma anche quelli profani del blues: “old man river” è una espressione consueta del genere, e il fiume di solito è il Mississippi. Forever loving Jah ribadisce il fatto che “non abbiamo paura di niente”, neanche di quelli che spararono contro di lui e sua moglie, nel 1976, alla vigilia di un concerto per la pacificazione tra le fazioni avverse in Giamaica.