La versione di Mario Mori
Claudio Cerasa ha passato un pomeriggio con l'ex generale dei ROS accusato da Ciancimino
Mario Mori è un ex generale dei ROS, il raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri, noto soprattutto per avere diretto le operazioni di cattura di Totò Riina. Dopo la cattura di Riina, Mori è stato processato per favoreggiamento della mafia e assolto, non – come si dice spesso – per la mancata perquisizione dell’abitazione del capomafia bensì per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Da qualche mese Mori è di nuovo sotto processo per favoreggiamento alla mafia, per via della presunta mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995. Tra i suoi accusatori c’è il controverso testimone Massimo Ciancimino, che ha parlato di frequenti contatti dell’ex generale Mori con suo padre Vito quando questo era sindaco di Palermo. Claudio Cerasa ha passato un pomeriggio con lui e gli ha chiesto del processo, di Ciancimino e della presunta trattativa tra Stato e mafia.
“Io però l’avevo detto che quello lì non sa usare nemmeno un minchia di Photoshop…”. La prima persona in assoluto a suggerire ai magistrati della procura di Palermo una certa cautela nel valutare l’attendibilità delle parole utilizzate in questi anni dal testimone più famoso d’Italia – “quello lì”: ovvero Massimo Ciancimino, 48 anni, palermitano, figlio di don Vito Ciancimino, detto, per varie ragioni che approfondiremo in queste righe, “il pataccaro” – è stato senza dubbio il generale Mario Mori.
Negli ultimi due anni, l’ex capo del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma dei carabinieri (insomma, i Ros: quelli che, per capirci, il 15 gennaio del 1993 arrestarono Salvatore Riina, il capo dei capi, il boss dei boss) ha studiato a lungo il profilo di Ciancimino Jr. e dalla prima volta che ha avuto a che fare con il figlio di don Vito non ha più cambiato idea. “Quel signore è un taroccatore di quarta categoria, è un truffatore da quattro soldi, è uno che non sa nemmeno fare un copiaeincolla come si deve. Mi stupisco che in una procura importante come quella di Palermo ci sia qualcuno che non riesca a distinguere una grande verità da una clamorosa patacca, e d’altra parte mi sorprende che in giro ci siano ancora così tanti pm che si comportano come non dovrebbero comportarsi, che non fanno le verifiche che dovrebbero fare, che non chiedono i riscontri che dovrebbero pretendere e che troppe volte, nel condurre le loro inchieste, si sono mossi proprio come quei cronisti distratti, diciamo così, che dovendo scrivere un articolo si preoccupano di raccattare solo quelle notizie, quelle voci e quelle testimonianze utili a raccontare non tanto una verità ma soltanto, mi verrebbe da dire esclusivamente, le proprie tesi precostituite. E per quanto mi riguarda, vedete, io credo che ormai sia chiaro cosa cercano di dimostrare, nel mio processo, i due pm della procura di Palermo”.
“I due pm della procura di Palermo” si chiamano Antonino Ingroia e Antonino Di Matteo e sono i due magistrati che da due anni e mezzo guidano l’accusa nel processo in cui il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono indagati per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Un processo che era nato, sì, per dimostrare il presunto reato commesso da Mori e Obinu nel pomeriggio del 31 ottobre 1995 al bivio di Mezzojuso (bivio di un piccolo comune a pochi chilometri da Palermo in cui Mori e Obinu, secondo l’accusa, avrebbero accuratamente evitato di arrestare Bernardo Provenzano) ma che, tra una cosa e un’altra, tra un interrogatorio e un’intervista in prima serata, alla fine si è trasformato in qualcosa di diverso: anche grazie alle parole di quel Massimo Ciancimino che, nonostante sia finito in carcere due settimane fa per avere falsificato un documento del padre per calunniare l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, il 10 maggio, data della prossima udienza del processo Mori, sarà regolarmente in aula a testimoniare contro il generale. E la nostra conversazione con Mori comincia proprio da qui.