La celebrazione dei corpi
Quello che unisce matrimonio reale, beatificazione di Wojtyla e morte di Osama bin Laden
di Filippomaria Pontani
Londra, Roma, New York. Per una irripetibile coincidenza della storia, lo scorso weekend ha addensato in rapida successione nelle tre capitali dell’Occidente ragguardevoli adunate di popolo, anzi di popoli diversi e compositi, accorsi al richiamo non già di una ricorrenza, di un trofeo sportivo o di un’idea, bensì – giusta una temperie avida anzitutto di effimeri simboli individuali – dietro al fascino di tre corpi.
A Londra, tra i cappellini e gli strascichi, su tutto il royal wedding aleggiava il corpo rimosso di Lady Diana, sfigurato tra le lamiere parigine (estate 1997), ma ancora memorabile nel suo fulgore di sposa e principessa in quella stessa chiesa, giusto trent’anni fa. Chi all’epoca era bambino ricorda il matrimonio con Carlo come una vera fiaba (di quelle che si perdono nella notte dei tempi, pari pari), non ancora irrimediabilmente compromessa dall’ombra dell’Alma, dei servizi segreti, dei tampax. E forse potrà sorprendersi del fatto che non solo e non tanto i sudditi inglesi, ma anzitutto i governanti di tutto il mondo, dopo l’indubitabile discontinuità rappresentata da Diana nei riti sempre più malcerti della pantomima monarchica, siano tornati ad allinearsi sui banchi di Westminster per celebrare con fasto e partecipazione le nozze di due giovanotti privi fin qui di qualsivoglia merito se non quello di esser nati nel posto giusto.
A chi considererà questa come la tipica, sterile paturnia dei massimalisti, si potrebbe chiedere come si
inserisca il fenomeno Kate nella retorica di coloro (una maggioranza, m’illudo) che non individuano la massima realizzazione di una studentessa universitaria nel matrimonio col Duca di Cambridge (alla Jane Austen) o (alla Silvio Berlusconi) con un bel milionario.
A Roma, due giorni dopo, nel centro del colonnato che abbraccia la Cristianità cattolica campeggiava entro una bara il corpo esibito di Karol Wojtyla, esposto all’adorazione dei fedeli nel momento della sua beatificazione. Secondo una prassi secolare e immutabile, le folle cristiane vengono chiamate a venerare non solo (e non necessariamente) il pensiero o la carriera terrena di un uomo, bensì anzitutto il suo corpo, intero o sminuzzato in reliquie, perché quel corpo è stato latore di spirito divino, e soprattutto (condicio sine qua non) capace di produrre miracoli. Tecnicamente, infatti, i governanti di tutto il mondo (gli stessi del royal wedding, in persona o tramite autorevolissimi delegati) hanno reso omaggio con la loro presenza non già alla figura di Giovanni Paolo II (per quello sarebbe bastato un convegno, o una commemorazione), sibbene alla proclamazione solenne dei suoi poteri taumaturgici, ovvero alla sanzione ufficiale del suo talento di guaritore.
A chi considererà questa come la tipica, sterile paturnia degli anticlericali, si potrebbe chiedere perché, nel momento in cui le folle si accalcano per celebrare una simile enormità, i rappresentanti che dovrebbero guidarle si sentano in dovere di fare altrettanto, se la gran parte di loro (come m’illudo che sia, se i Lumi non sono passati invano) non crede alla veridicità di quel mistero.
A New York, poche ore dopo, le folle sono spontaneamente scese in piazza per celebrare con giubilo l’annientamento del corpo di colui che dieci anni fa aveva devastato la loro città con un attacco terroristico tra i più sanguinari e inattesi della storia. Non importa molto qui sapere se Osama bin Laden avesse o non avesse davvero progettato e ordinato l’11 settembre, né se egli fosse o non fosse ancora saldamente a capo dell’organizzazione nota come Al-Qaeda: appare tuttavia assai probabile, sulla base delle stesse ammissioni del Pentagono, che egli debba la sua fine al tradimento di qualcuno dei suoi (ne fa fede il luogo stesso dove si nascondeva indisturbato), e che la sua morte non sia avvenuta in un conflitto a fuoco bensì nella forma – grosso modo – di un’esecuzione programmata.
A New York stavolta i potenti del mondo non c’erano fisicamente, ma tutti, dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno, non hanno mancato di esprimere in apposite dichiarazioni il proprio giubilo per l’evento, facendo eco al concetto espresso dal Premio Nobel per la Pace 2009 nella sua memoranda allocuzione al popolo americano, ovvero che “justice has been done”: quel corpo, tramite la sua morte fisica decretata lì per lì in un edificio di Abbottabad, ha dunque espiato il male inenarrabile che aveva prodotto da dieci anni a questa parte.
A chi si aspetterà a questo punto la tipica sterile paturnia dei catto-pacifisti, si potrebbe chiedere con molta semplicità se la lunga tradizione della civiltà occidentale abbia davvero portato a un’idea di giustizia così apertamente sinonima di vendetta; e soprattutto – ammesso e non concesso che bin Laden sia stato ucciso in un’azione di guerra – se davvero il compito dei governanti (non parliamo dei Nobel) debba essere quello di rinsaldare e attizzare i sentimenti delle folle prevedibilmente bramose d’infierire sul corpo del nemico, secondo dinamiche già viste tante volte (e con quale nostro scandolezzo) nelle strade del Medio Oriente.
La memoria corre ad Alessandro Magno, il quale nel 330 a. C. inseguì caparbiamente per settimane il Gran Re persiano Dario III, di gran lunga il più potente dei suoi nemici, nella sua fuga sui monti dell’Iran: quando, giunto presso l’odierna Semnan (pochi km ad est di Teheran), scoprì che il Re era stato proditoriamente ucciso dal satrapo della Battriana (il quale peraltro era convinto di avergli così reso un meritorio servigio), Alessandro si disperò, punì severamente l’assassino e il suo malposto zelo, e rese solenni onori funebri all’avversario che negli ultimi anni aveva ucciso in battaglia centinaia e centinaia di Macedoni. Plutarco (Vita di Alessandro, 43) racconta addirittura che, vedendo Dario orribilmente sfigurato dai dardi di Besso, Alessandro coprì il suo corpo con un panno, per rispetto, ma anche per velare alla vista degli uomini gli effetti della nèmesi, il rovescio istantaneo della fortuna.
Non a caso, le parole estreme che secondo la più tarda tradizione del Romanzo di Alessandro (II, 20-21) Dario avrebbe affidate al Macedone sul letto di morte riguardavano proprio la mutevolezza della sorte, e andrebbero forse meditate da chi, dinanzi al cadavere ancor fresco di Osama e dei suoi, proclama orgoglioso al mondo intero che il proprio Paese è in grado di conseguire qualunque obiettivo si prefigga, per quanto ambizioso esso sia.
Londra, Roma, New York: imperatores, oratores, bellatores, per parafrasare Adalberone di Laon. Singled out and seen from a distance, ci si può chiedere a quale secolo appartengano questi tre “eventi mediatici globali”, volti a riempire lo spazio vuoto della sfera pubblica rendendolo omogeneo, e contestualmente indiscutibile, in mille Paesi; tre eventi legati a corpi esanimi trattati (è perfino superfluo osservarlo) senza un’ombra di vero rispetto. In un Occidente che còmpita disperato le proprie anime alla ricerca di una qualche identità, ora che le ideologie si proclamano defunte, le feste nazionali fomentano divisioni, e perfino la Copa del Rey rovina giù da un autobus a due piani, il triduo del Calendimaggio ha di fatto unito non solo le masse del nostro mondo, ma anzitutto i loro rappresentanti, nel nome della diseguaglianza, della superstizione e della vendetta. L’unanimità quasi assoluta che si è creata attorno a questi tre eventi nella pubblica opinione e (cosa ancor più significativa) nelle classi dirigenti, lascia poche illusioni circa la tanto auspicata resurrezione della “politica” (nel senso alto del termine) nei lembi di mondo che abbiamo la fortuna di abitare.
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