Dopo bin Laden, chiudiamo il cerchio grosso
Adriano Sofri sulle altre cose di cui provare a liberarci, dopo il leader di Al Qaida
Adriano Sofri sulle altre cose di cui provare a liberarci, dopo il leader di Al Qaida.
Una gran parte degli umani che abitano oggi la terra è nata così tardi da non aver sperimentato lo sgomento di fronte alla novità di uomini (e donne, quando non erano forzate) entusiasti di uccidere e uccidersi in un colpo solo, e guadagnarsi il premio abbagliante del “martirio”. La mutazione era in corso da tempo quando Bin Laden se ne fece imprenditore e la spinse al doppio culmine delle Torri gemelle, e di autori né disperati né poveri, ma istruiti, agiati, e passati attraverso vetrine e notti d’Occidente. Li chiamammo kamikaze, facendo torto a quei soldati, e a tutti i “pronti alla morte” per amore di una causa o di un semplice compito, pompieri di Ground Zero o di Fukushima: questo nuovo nemico dileggiava l’amore per la vita e corteggiava la morte. Una vocazione lugubre sfidava ogni convenzione umana, costringeva a figurarsi dentro ogni passante un terrorista, spingeva costruire muraglioni o aprire il fuoco a distanza, alla cieca. Era la bomba atomica dell’altro mondo del fanatismo islamista (e non solo), e un rapido contagio lo fece passare da drammatici casi iniziali –qualche giovane curda incinta di esplosivo a un posto di polizia turco- a un inarrestabile e anonimo reclutamento di massa.
Gli attentati suicidi fanno ancora strage, e continueranno, ma la loro efficacia è sempre più scarsa. Al contrario, mutamenti profondi sono stati messi in moto da scelte opposte, dai suicidi di giovani operai che hanno scosso la Cina industriale di Shenzhen, al rogo di Mohamed Bouazizi in Tunisia. Gesti che rifiutano di investire la propria morte nelle morti del nemico, e ne testimoniano l’iniquità. Ricordate la frase del giovane tunisino alla madre: “Rivolgi i tuoi rimproveri alla nostra epoca, non a me”. Quei suicidi –come di migliaia di contadini indiani- erano meno “politici” di quelli dei monaci di Saigon o di Jan Palach, eppure hanno cominciato a trasformarsi nelle scintille di un incendio. Così i giovani maghrebini raccontati qui da Bernardo Valli mettono fuori gioco il delirio dei “kamikaze”. Per questo la coincidenza fra la primavera araba e la fine di Osama Bin Laden è apparsa come il suggello di un trapasso. Simbolico e però materiale, perché l’azione di Abbottabad ha una irruenza fisica come poche, e la sua riserva di invisibilità è fatta per accrescere la suggestione di immagini e immaginazione. Mi piacerebbe che il cerchio simbolico chiuso dalla fine di Bin Laden si allargasse a comprendere un passato più lungo.