Si può ammazzare un uomo?
L'eliminazione del nemico numero uno della sicurezza dell'Occidente è un omicidio o no?
Messa in ombra dalle notizie che arrivano da due giorni sulle modalità dell’uccisione di Osama bin Laden, della sua localizzazione, della sua sepoltura, una discussione parallela sta però crescendo sulla scelta di ucciderlo da parte del governo americano. È una discussione molto interessante perché raramente dei principi morali solidi vengono sottoposti a carichi concreti così forti nella realtà: di solito per discutere simili temi ricorriamo a ipotesi teoriche come quella del terrorista con la bomba a orologeria, o del treno che corre verso delle vittime ignare, eccetera.
Adesso c’è un caso altrettanto eccezionale, e però reale. E infatti il dibattito appassiona molti e molto, e questo è un bene. Rimettere ogni volta in discussione i propri principi a seconda dei contesti è il modo migliore per dare loro valore e senso e non farli diventare pigre ripetizioni di qualcosa di cui non ricordiamo neanche più le ragioni.
Ci sono due cose da dirne a premessa, innanzitutto. La prima è che le riflessioni sul poter essere “contenti” o no della morte di un uomo – su cui è intervenuto tra l’altro il Vaticano in una nota critica – sono un’altra cosa: stanno nello spazio delle emozioni, sulle quali i giudizi sono leciti ma sapendo che gli spazi di diversa percezione e reazione agli eventi sono assai più vari e personali. La loro diversità è interessante da osservare e capire ma non ci porterà mai a una sintesi che possiamo ritenere “giusta”. Se comprendiamo la madre di un figlio ucciso al World Trade Center che lunedì sia stata contenta nel sentire la notizia, vuol dire che ci sono casi per cui è possibile comprenderlo e giustificarlo.
La seconda cosa da cui partire per non perdere la bussola di una simile riflessione è che nessuno può avere la pretesa di attribuire scelte maldestre, affrettate o malintenzionate ai responsabili del governo americano che hanno preso la decisione di far uccidere bin Laden: sarebbe sciocco e presuntuoso. Può essere stata una scelta sbagliata, ma è evidente che sia stata una scelta molto molto studiata, ponderata, valutata, sulla base del massimo delle informazioni possibili, probabilmente più di quelle che possa avere chiunque altro al mondo, e con l’intenzione di fare la cosa più utile per ciò che chi ha fatto quella scelta rappresenta: dalla difesa di milioni di persone alle istituzioni che le governano, a un sistema di principi e persino un’idea del bene. Pensare diversamente sarebbe infantile, benché ci sia chi lo fa.
Detto questo, uno stato democratico, il suo governo, la sua legge, hanno deciso di uccidere un uomo, e lo hanno ucciso (il capo della CIA ha spiegato che i soldati lo avrebbero preso vivo se si fosse immediatamente arreso, ma che l’ordine prioritario era quello). E – questo elimina dal piatto a priori la variabile del consenso o no alla pena di morte – lo hanno ucciso prima ancora di processarlo e dimostrarne una colpevolezza. E qui sta un primo nodo centrale: bin Laden non è stato ucciso perché colpevole di qualcosa ma perché potenzialmente pericoloso. La decisione di ucciderlo rientra quindi nella categoria della legittima difesa, e lì va discussa. Cercando di capire se vi appartenga o no a partire da due incognite che tali resteranno: che bin Laden costituisse o meno un pericolo per gli Stati Uniti, per la democrazia, per molti uomini e donne nel mondo, quanto lo era nel 2001; e che ci fosse o no un altro modo di affrontare e annullare questo eventuale pericolo.
Sulla prima questione il governo Obama ha ipotizzato che sì, che quel pericolo ci fosse. Sia in termini di potenziali ruoli concreti nella progettazione di nuovi attentati e nella prosecuzione della guerra dichiarata contro noi occidentali, sia per il valore e il peso della figura di bin Laden nell’ispirazione di quella guerra e nella sua continuazione da parte di altri. Molte opinioni di questi giorni mettono in dubbio entrambe le cose: e anzi aggiungono che la seconda cosa rischi di essere persino rafforzata dall’uccisione di bin Laden, rinnovando un sentimento di vendetta e guerra aperta in un fronte di fanatismo ritenuto ultimamente meno pericoloso di quanto fosse cinque anni fa.
Sulla seconda questione l’amministrazione USA ha poi creduto che provare a catturare Osama vivo non fosse un’opzione che garantisse i risultati cercati rispetto dell’ipotesi della sua pericolosità. Di certo non sarebbe stato più in grado di guidare e progettare attentati puntuali, ma da ostaggio degli USA la sua visibilità e la sua influenza avrebbero invece potuto aumentare; per non parlare dei rischi maggiori di fallimento di un’operazione che avesse avuto la cattura come priorità. E poi Obama deve avere valutato i problemi che sarebbero nati da una gestione del detenuto Osama: le difficoltà di custodirlo e proteggerlo, i rischi per la sicurezza del paese che lo avesse prigioniero, i probabili ricatti e ritorsioni. E l’ancor più alto valore simbolico negativo di una sua morte per sentenza, “giustiziato”.
L’obiezione a queste seconde valutazioni è la più naturale e solida: è quella della legge. È quella della differenza tra i buoni e i cattivi. È quella per cui la legittima difesa vale solo se la minaccia è immediata e nessuna alternativa è accessibile. È quella che vede nella violazione di queste idee un pericolo ancora più grande per una democrazia che non quello rappresentato dai suoi nemici dichiarati. È quella che pensa che anche di fronte a rischi di sconfitta, uno stato deve fare ciò che si è dato come giusto: catturare un uomo accusato di crimini enormi, processarlo e prendersene la responsabilità.
Come detto, sono due terreni in cui nessuna delle ipotesi opposte può essere certa di essere giusta: i principi appena citati hanno valore solo se difendono le persone e le comunità e ci sono circostanze in cui non è facile essere certi che basti la loro elementare applicazione a ottenerlo. Anzi. È il campo dell’emergenza, quello che contempla situazioni straordinarie e deroghe al consueto: campo molto spesso abusato nella storia italiana, per esempio; o che si ritiene lecito occupare nei casi dichiarati di “guerra”, formula a sua volta sempre più nebbiosa. Ma che se esiste, se ha un suo valore, difficilmente conoscerà occasioni di straordinarietà maggiori di quelle in cui è in ballo l’eliminazione di un uomo che ha guidato la peggiore strage omicida dell’ultimo mezzo secolo e un’iniziativa potente di distruzione di una civiltà che ha fatto moltissimi morti ed è diventata in misure diverse parte delle nostre vite nell’ultimo decennio. Se si è disposti ad accettare momenti di emergenza, bin Laden era un’emergenza, sia che fosse ancora attivo o che non lo fosse.
Però può anche darsi che non debba esistere, quello spazio per l’emergenza, per la situazione straordinaria, che ci costringe e legittima a violare ciò che più solidamente crediamo giusto. Mai. Che ci sia un rispetto di regole e principi fondamentali che viene prima di tutto e che non si possa mai “contestualizzare”, perché è concretamente ciò che tiene in piedi la nostra civiltà. Probabilmente la discussione sta tutta lì. Ed è una discussione molto antica, di cui non verremo a capo perché non ha mai la controprova, come molte cose che appartengono alla realtà e non alla teoria accademica. Ma una cosa è sicura: è sempre bene farla, ogni volta, questa discussione.
– A caccia di Bin Laden
– Sei ragioni per cui era meglio non ammazzarlo