Primo maggio e dintorni
Tirando su la rete dal mare di polemiche scaturite in questi giorni dalla decisione di alcuni sindaci di accordare ai commercianti la possibilità di tener aperta bottega il primo maggio si trova un po’ di tutto
Tirando su la rete dal mare di polemiche scaturite in questi giorni dalla decisione di alcuni sindaci di accordare ai commercianti la possibilità di tener aperta bottega il primo maggio si trova un po’ di tutto: rivendicazioni ideologiche, strumentalizzazioni bieche, recriminazioni infondate e a lungo covate, ragionamenti seri, suggestioni interessanti. Insomma, tanta pretestuosità ma anche autentico desiderio di approfondire il tema.
Come peraltro proprio nel
27/primo-maggio-negozi-aperti/”>dibattito aperto da queste parti si è voluto evidenziare e sviluppare: «È difficile vedere nella chiusura obbligatoria per i negozi una reale battaglia per i diritti dei lavoratori, così come è difficile ignorare l’evidenza che si tratti di una tappa delicata nella ridiscussione del funzionamento del lavoro nell’epoca contemporanea e che quindi la questione non si riduca semplicemente a un giorno di lavoro in più o in meno».
E allora proviamo a mettere un altro piccolo mattone nella costruzione di questa riflessione che con un po’ più di diffusa onestà intellettuale, soprattutto tra politici e giornalisti, potrebbe assumere ben altro spessore. La questione è innanzitutto politica: non nel senso dei vari Renzi e Moratti che, seppur da punti di vista differenti, riconducono tutto a più o meno fastidiosi battibecchi. Bensì nel senso del primato ormai da tempo perduto dalla politica nel governo delle dinamiche economiche. Per cui oggi tutti i nodi sono giunti al pettine ed è deprimente, duole constatarlo, il balbettio, la povertà intellettuale se non la palese ignoranza, l’assenza o inadeguatezza di proposte che caratterizza larga fetta dei soggetti che dovrebbero contribuire a scioglierli: governo, opposizione, sindacati, associazioni del commercio e dell’industria, settore nonprofit.
Ha scritto il 20 aprile sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia parlando d’Europa ma il concetto, di per sé, vale anche per l’Italia degli ultimi due decenni: «Tutta la costruzione europea è stata portata avanti sulla base di una drammatica sottovalutazione della politica; sulla base della convinzione che l’economia rappresentasse la dimensione decisiva, che l’economia fosse in grado di produrre la politica. Laddove, se qualcosa aveva dimostrato il Novecento, era esattamente il contrario, e cioè che deve essere la politica a comandare. Per la salvezza stessa dell’economia».
Gli ha fatto eco il giorno successivo sulle stesse colonne con un bel pezzo Massimo Mucchetti sottolineando come noi europei (noi italiani, quindi) siamo diventati fanatici di Wal-Mart, la più grande multinazionale del mondo famosa per i bassi prezzi praticati ai consumatori ma anche per i bassi salari pagati ai propri dipendenti e gli ostacoli che
frappone alla loro adesione ai sindacati (da tempo è stata coniata, in proposito, anche l’espressione “Wal-Mart economy” per indicare un mix allarmante composto da massima flessibilità, retribuzioni all’osso, strategia di offerta basata su enormi volumi per abbattere i prezzi). Adesso, ricordava Mucchetti, pende davanti alla Corte suprema una class action promossa da sei lavoratrici contro le discriminazioni sessiste di Wal-Mart e se la Corte darà ragione alle lavoratrici verrebbe fermata «la trentennale deriva alla prevalenza del contratto privato sul diritto pubblico e la politica, sia pure intermediata dalla magistratura, riavrebbe primazia sul mercato». Intanto ci ritroviamo con l’economia che negli Usa come in Europa ha assunto il ruolo di regolatore supremo che pone «al centro il capitale
e la sua valorizzazione rispetto al lavoro, la concorrenza rispetto alla collaborazione, il successo rispetto alla solidarietà».
Ci avviciniamo al punto. Nelle polemiche nostrane sul primo maggio, il bersaglio preferito è stato, naturalmente, la CGIL e il suo segretario generale Susanna Camusso. Mi limito a citare sempre il Corriere della Sera (e onore al direttore De Bortoli che ha ospitato pareri così differenti). Ha esordito il 24 aprile Dario Di Vico con argomentazioni a mio avviso piuttosto pasticciate (per eccesso di perentorietà e semplificazioni che mal si addicono a una puntuale analisi economica) e ha proseguito il 27 Antonio Polito che sembrava non aspettasse altro per scagliarsi contro la sinistra. Ma lo ha fatto male, “impantanandosi” proprio quando avrebbe dovuto mostrare più “visione”.
Mi spiego meglio partendo proprio dalle sue parole. Ha scritto Polito: «Il “vade retro shopping” pronunciato da Susanna Camusso contro i negozi aperti il Primo Maggio è anche la rivelazione di uno dei problemi culturali più seri della sinistra, non solo italiana. Per la discendenza marxista, infatti, il cittadino-produttore viene sempre prima del cittadino-consumatore. Il problema è che oggi, nelle società post industriali è proprio il cittadino-consumatore il dominus dell’economia, del costume, delle mode e anche della politica. Il fatto che la stragrande maggioranza dei consumatori siano anche lavoratori dovrebbe spingere la sinistra a non guardare con fastidio le folle che riempiono
gli outlet delle nostre città al sabato, alla domenica e potendo anche il Primo Maggio».
Eccoci arrivati, è proprio questo il nodo al pettine che Polito (e chi per lui) pensano di sciogliere proponendo uno sguardo non “fastidioso” sul cittadino consumatore e invece finiscono con l’aggrovigliare sempre di più. Infatti, come lo stesso Polito ha premura di ricordare, cittadino-produttore e cittadino consumatore nella stragrande maggioranza dei casi coincidono. Purtroppo però gli stessi, spesso inconsapevolmente, sottoscrivono un patto col diavolo che può rivelarsi per loro fatale. Lo ha spiegato molto bene Robert Reich, ministro del lavoro durante la prima amministrazione Clinton e autore del fortunato libro Supercapitalismo. Ha detto Reich che «l’economia moderna ci offre una sorta di patto faustiano: in sostanza essa può offrire ai consumatori grandi affari perché vessa i lavoratori e la collettività. Possiamo anche biasimare le grandi corporation, ma in effetti facciamo affari con noi stessi. Quanto più è facile fare per noi buoni affari, tanto più forti sono le pressioni verso il basso dei salari e dei
benefici».
In altri termini, le sei lavoratrici che hanno fatto causa a Wal-Mart, con il basso salario che percepiscono non possono, quando assumono la veste di consumatori, che “benedire” l’esistenza di catene di supermercati che consentono loro di fare la spesa con pochi soldi. Ma la spirale in cui questo sistema costringe ad avvitarsi può divenire nefasta. Altro che occhio di riguardo. Ci vorrebbe invece una politica che sapesse scioglierlo questo patto
faustiano ripristinando, appunto, la sua primazia sulle derive del mercato. Le modalità possono essere molteplici e questo è oggetto, evidentemente, di altri approfondimenti. Ma assecondarlo proprio no. Sosteneva l’economista Karl William Kapp che «il capitalismo si regge su un insieme di costi sociali non pagati». Un conto salatissimo, ahimè, sta arrivando e non se ne accorge solo chi non vuole accorgersene.