Cosa fare con la Libia
A quasi un mese dall'inizio della guerra, la comunità internazionale deve decidere se armare o no i ribelli
Lo scorso 19 marzo, in seguito a una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha preso inizio un’operazione militare internazionale volta a instaurare una no-fly zone e ricorrere a qualsiasi tipo di azioni – esclusa un’invasione di terra – allo scopo di proteggere i civili libici dall’avanzata di Gheddafi. È passato quasi un mese: l’avanzata di Gheddafi è stata fermata, i ribelli l’hanno ribaltata ma non sono riusciti ad arrivare fino in fondo. Le violenze continuano in molte città, con nessuna delle due parti che ha intenzione di arrendersi. Il regime ha subìto colpi importanti anche dal punto di vista politico e diplomatico – si veda la fuga del ministro degli Esteri Moussa Koussa – ma per il momento non intende mollare la presa. La situazione in Libia è oggetto di due incontri molto importanti, in questi giorni.
Il primo si è tenuto ieri a Doha, in Qatar, e ha riunito il cosiddetto “gruppo di contatto internazionale” con la Libia, che comprende sostanzialmente i paesi della comunità internazionale che danno maggior sostegno ai ribelli. Il gruppo ha deciso di mettere in piedi un fondo temporaneo attraverso il quale poter fare arrivare risorse economiche al Consiglio nazionale libico, il quartier generale dei ribelli a Bengasi. Si è discusso anche della possibilità che in futuro questo fondo possa essere alimentato con parte dei beni appartenenti a Gheddafi congelati all’estero. Il gruppo ha diffuso una nota nella quale chiede a Gheddafi di dimettersi e permettere al popolo libico “di determinare il proprio futuro”.
Si è discusso molto della destinazione di questi fondi. Il ministro degli Esteri tedesco Westerwelle ha espresso perplessità su un sostegno diretto ai ribelli, altri hanno fatto notare che questo genere di liquidità a Bengasi serve innanzitutto a pagare chi sta continuando a lavorare, aprire le scuole, tenere in piedi i servizi anche oggi che il regime è stato abbandonato. Poi esiste anche il tema degli armamenti dei ribelli, ma su quelli non si è arrivati a un accordo. Il premier del Qatar non ha escluso questa possibilità, in futuro; il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha detto che armare i ribelli non contravverrebbe ad alcuna legge internazionale né alla risoluzione delle Nazioni Unite; lo stesso ministro degli Esteri italiano Franco Frattini avrebbe detto che, non potendo l’ONU proteggere i civili dall’alto nelle città e nei luoghi molto popolati, “o diamo a queste persone la possibilità di difendersi da soli, o ci rimangiamo i nostri impegni sul sostegno nei loro confronti”. Il ministro degli Esteri belga, invece, si è detto contrario: “La risoluzione dell’ONU parla di proteggere i ribelli, non di armarli”.
Il secondo incontro si terrà oggi a Berlino e coinvolgerà tutti i ministri degli Esteri della NATO. Si tratta probabilmente dell’incontro in cui questi nodi verranno al pettine, come si dice. La Gran Bretagna e la Francia vogliono alzare la pressione militare nei confronti di Gheddafi e assumere un ruolo più aggressivo. Non solo, dice la BBC: vorrebbero che questo sforzo fosse condiviso da altre nazioni, in primo luogo Spagna e Italia. La Francia ha detto che non sta inviando armi ai ribelli, per il momento, ma “simpatizza con chi lo fa”. La Gran Bretagna ha detto di avere fornito ai ribelli 1000 giubbotti antiproiettili e 100 telefoni satellitari.
foto: MARWAN NAAMANI/AFP/Getty Images