Il problema con le energie rinnovabili
Sole e vento possono risolvere molti problemi, ma certo non quello della dipendenza energetica dall'estero
di Filippo Zuliani e Corrado Truffi
Ricorrere all’energia nucleare non fa diminuire la nostra dipendenza energetica dall’estero. Quante volte avete sentito questa frase? Tante, e altrettante la sentirete da qui al prossimo referendum sul nucleare. Il motivo è semplice: l’uranio per le centrali nucleari lo dobbiamo importare, e quindi dipenderemo dai paesi importatori così come oggi dipendiamo dai paesi da cui importiamo petrolio e gas. Con le fonti rinnovabili invece siamo più contenti, perché il problema della dipendenza non sussiste proprio, dal momento che sole e vento non ce li toglie nessuno. Sarebbe bello, ma le cose non stanno proprio così.
La chimera dell’autosufficienza energetica nazionale risale ai tempi del fascismo. Ha origine dall’isolamento dell’Italia e dai suoi cattivi rapporti con la Gran Bretagna (la “perfida Albione”, appunto), allora fornitrice di carbone, trovò successiva giustificazione nell’autarchia e portò allo sviluppo dell’idroelettrico italiano. Se possiamo dirci soddisfatti della nostra alta produzione idroelettrica, l’idea dell’indipendenza energetica in sé ha poco senso nell’epoca del mercato globale. Comprare un bene che ci serve da chi lo produce e vende non è un male in sé. Il problema nasce dalla natura del venditore, perché doversi rifornire di petrolio da Gheddafi è cosa ben diversa dal comprare carbone dalla Germania.
Come per il petrolio, il grosso della produzione di uranio è in mano a pochi paesi produttori, ma quasi il 50 per cento del minerale prodotto nel mondo viene da due paesi civilissimi come Canada e Australia. Gli Stati Uniti ne producono poi un altro 4 per cento mentre la temutissima Russia si ferma appena all’8 per cento. Sulla disponibilità a lungo termine del minerale è in corso un ampio dibattito ma, al momento, è impossibile trarre delle conclusioni sull’effettiva entità delle risorse di uranio e sul relativo prezzo di mercato. Certo è che il prezzo sul lungo periodo è fermo ai 73 dollari alla libbra, nonostante i problemi a Fukushima.
Sole e vento per produrre elettricità arrivano gratis, certo, ma le cose non sono così semplici: anche la produzione di energie rinnovabili è fortemente dipendente da diversi minerali, in particolare dalle terre rare. Quasi tutta l’offerta mondiale di terre rare viene da otto grossi giacimenti: Mountain Pass negli Stati Uniti, e altre sette miniere, tutte in Cina. Dal 1990 la Cina ha assunto un ruolo dominante nella produzione di terre rare. Oggi esporta il 97 per cento delle terre rare disponibili sul mercato. In altre parole, la Cina ha il monopolio e gli altri paesi sono quasi completamente dipendenti dalle esportazioni cinesi.
Le terre rare hanno un sacco di utilizzi: come additivi metallurgici per leghe, per i convertitori catalitici delle automobili, computer, catalizzatori, additivi per vetro, batterie al nichel-metallo idrato, sistemi audio, turbine eoliche, automobili, illuminazione, applicazioni per la difesa, schermi a cristalli liquidi, fertilizzanti, apparecchiature per la risonanza magnetica e plasma. E sono indispensabili per le tecnologie rinnovabili.
Il settore in cui si fa un largo uso di terre rare è quello dei computer, che contengono neodimio (Nd), praseodimio (Pr), disprosio (Dy), gadolinio (Gd) e terbio (Tb). Le stesse terre rare sono usate per i magneti permanenti delle pale eoliche e per le batterie al nichel-metallo idrato, quelle della Toyota Prius. Il cerio (Ce) è indispensabile per i convertitori catalitici per automobile, per ridurre le emissioni di gas serra. Nd e Pr sono usati anche nelle automobili. Poi c’è il litio (Li), che non è una terra rara ma il più leggero dei metalli, ed è vitale per le batterie ricaricabili dei veicoli elettrici. In breve, le terre rare sono fondamentali per lo sviluppo tecnologico della sostenibilità. Niente terre rare, niente rinnovabili.
La Cina negli ultimi anni è inoltre diventata essa stessa un grande utilizzatore di terre rare per le sua industria manifatturiera. È il classico caso di “tempesta perfetta”: da una parte il monopolio quasi totale della Cina, dall’altra il rapido aumento della domanda mondiale di terre rare da parte dei paesi industrializzati – che non potrà che aumentare ancora, con il prossimo sviluppo delle rinnovabili – e in mezzo l’aumento del consumo interno cinese. Il risultato è una inevitabile bufera sull’affidabilità della fornitura di terre rare per il mercato globale. È stato calcolato che, mantenendo gli stessi ritmi di crescita attuali, la Cina potrebbe smettere di esportare terre rare entro il 2015, diventandone importatore. In più, il blocco alle esportazioni di terre rare operato dal governo cinese ai danni del Giappone a causa di screzi diplomatici è storia di qualche mese fa, mentre solamente da pochi giorni la Cina ha reso nota la quota di terre rare destinata all’esportazione per il 2011, concedendo un po’ di relax un mercato in fibrillazione da mesi. Roba da far rimpiangere la dipendenza dalle esportazioni di uranio di Australia e Canada.
Tutto male, allora? Non necessariamente. La quantità di terre rare attualmente in uso è cresciuta enormemente negli ultimi anni. Si stima che oggi sia circa quattro volte il tasso di estrazione annuale. Il che significa che molto probabilmente riciclare le terre rare può coprire una parte significativa dell’estrazione. Riciclare le terre rare è un processo complesso, ma dovrebbe essere possibile in applicazioni dove se ne fa largo uso, come i catalizzatori delle automobili e i magneti permanenti delle turbine eoliche. In Giappone, Hitachi, Mitsubishi, Panasonic e Sharp stanno cominciando a riciclare le terre rare dai rifiuti.
Dato che la Cina in questo momento domina il mercato mondiale della produzione di terre rare, incentivare il riutilizzo e il riciclaggio di prodotti contenti terre rare – che normalmente verrebbero buttati – è l’unica opzionale realistica per minimizzare il rischio di mancato approvvigionamento nel futuro prossimo, fintanto che non verranno scoperti nuovi giacimenti. Attualmente sono in corso esplorazioni negli Stati Uniti in Australia, ma non vi sono garanzie che i nuovi giacimenti saranno sfruttabili a prezzi competitivi. Insomma, è possibile che in futuro le rinnovabili possano costare di più o che ve ne sarà una disponibilità limitata. O tutte e due. Una cosa è certa: in mondo sempre più bisognoso di energia rinnovabile, la disponibilità di terre rare sarà la sfida del futuro.
foto: Feng Li/Getty Images