L’esercito dei ribelli non è un esercito
Guardian e New York Times raccontano la scarsa preparazione militare dei ribelli libici
Le cronache dalla Libia delle ultime settimane hanno spesso sottolineato la scarsa preparazione militare dei ribelli, più simili in molti casi a un gruppo di combattenti improvvisati che a un esercito: è un tema su cui avevano molto insistito gli inviati di Repubblica e Stampa Bernardo Valli e Mimmo Càndito. Oggi sia New York Times che Guardian tornano ad affrontare l’argomento, spiegando più nel dettaglio in che cosa consiste questa incompetenza militare e quali potrebbero essere le soluzioni per arginarla.
Lunedì scorso, mentre i ribelli preparavano un altro attacco disperato a Brega, un giovane ha caricato la sua granata pronto a sparare. L’università della città, che luccicava da lontano, era ben oltre la gittata dell’arma. Uno dei ribelli più anziani lo ha invitato a desistere, spiegandogli che il colpo sarebbe solo servito a far conoscere la loro posizione ai nemici e probabilmente ad attirare un bombardamento. Ma il giovane ha ribattuto disgustato. «Sto combattendo da 37 giorni! Nessuno può dirmi che cosa devo fare!». Questo litigio sottolinea un fatto che è ormai auto-evidente sul fronte libico orientale. L’esercito dei ribelli, come a volte viene chiamato, non è un esercito.
Non c’è nessun coordinamento vero delle operazioni, spiega il New York Times. Mancano mezzi di comunicazione efficaci, le poche armi a disposizione sono state rimediate occasionalmente ma pochi sanno come usarle. Con solo qualche settimana di combattimenti alle spalle, non conoscono ancora i fondamenti delle strategie di attacco e di difesa.
Sparano senza sosta e a volte a caso. La maggior parte di loro deve ancora imparare come difendere il terreno conquistato o semplicemente come proteggersi dal fuoco nemico. Molto suscettibili agli attacchi di panico, sono guidati quasi esclusivamente dal loro umore, che può cambiare da un momento all’altro. Quando il morale è alto, i loro attacchi tendono a essere frontali, con poco più di qualche colonna di uomini armati che corrono giù per l’autostrada guardando in faccia il fuoco proveniente dai carri armati di Gheddafi. E il loro numero è basso. I rappresentanti del Consiglio Transitorio di Bengasi hanno parlato di cifre diverse, ma non dovrebbero essere più di diecimila, di cui solo qualche centinaio appare in prima linea ogni giorno.
Per far fronte a questa disorganizzazione, scrive il Guardian, il governo britannico sta facendo pressioni sui paesi arabi che hanno sostenuto l’intervento ONU affinché intervengano per armare e addestrare i ribelli prima che venga dichiarato un cessate il fuoco.
Prima o poi il cessate il fuoco sarà inevitabile e quindi è solo questione di capire se a quel punto il vantaggio militare sarà nelle mani di Gheddafi o dei ribelli. Al momento la situazione è abbastanza equilibrata, ma i ribelli non sembrano in grado di mantenere a lungo le posizioni conquistate. Negli ultimi giorni hanno imparato a scavare trincee per creare dei semplici perimetri difensivi. C’è molta frustrazione perché spesso avanzano per cinquanta chilometri e poi devono subito tornare indietro perché vengono attaccati dal fuoco di Gheddafi.
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno più volte ripetuto nelle ultime settimane che armare i ribelli non sarebbe in violazione della risoluzione ONU, che prevede appunto di ricorrere a «ogni misura necessaria per difendere i civili». Resta però inevitabilmente il problema dell’addestramento, che i governi della coalizione internazionale preferirebbero delegare ai paesi arabi per evitare di dover intervenire da terra. Il Guardian scrive di avere saputo da fonti ufficiali che il governo britannico sta pensando di far intervenire militari privati per farlo, tra cui alcuni ex membri della SAS, la principale forza militare speciale del Regno Unito, che poi dovrebbero essere pagati dai paesi arabi per addestrare i ribelli.