Un grande paese
Esce oggi il libro di Luca Sofri, il peraltro direttore del Post: e costa solo dieci euro
di Luca Sofri
“Un grande paese” è il titolo del libro di Luca Sofri (il peraltro direttore del Post) che esce oggi, pubblicato da BUR Rizzoli, di cui anticipiamo la parte dell’introduzione che ne illustra le intenzioni. Così lo riassume la quarta di copertina: «”Un grande Paese” è la definizione che vorremmo poter dare dell’Italia, senza che ci scappi da ridere. È il futuro che vorremmo immaginare, il presente che invidiamo ad altre nazioni ma che non vediamo intorno a noi. Eppure, è il nostro modo di essere italiani, di sognare un grande Paese, di fare come se lo fosse, a disegnarlo e farlo diventare possibile: sono le nostre volontà e capacità di rendere condivise le cose di cui siamo fieri, quelle che ci sembrano giuste, quelle che ci sembrano belle. Come possiamo trasformare l’Italia da qualcosa a cui siamo affezionati in qualcosa di cui essere orgogliosi, almeno tra vent’anni, senza ricorrere ancora a Michelangelo e Domenico Modugno?
“Ci sono le cose giuste e le cose sbagliate”, spiega Luca Sofri in questo libro: “e bisogna fare quelle giuste”. Rimettendo ognuno di noi al centro del problema, distinguendo tra il partire tutti uguali e l’arrivare tutti uguali, superando la pigrizia dell’”essere se stessi”. Con l’aiuto di Gobetti, Snoopy e Michael Jackson, Sofri indica una strada, che passa per la voglia di fare, la responsabilità di ognuno, la costruzione di un orgoglio e l’umiltà di accettare lezioni. Per avere “un grande Paese” tra vent’anni, ma cominciando a lavorarci subito, domattina, e anche sul presto».
Questo libro non parla genericamente di «comportarsi bene», che pure sarebbe un programma ambizioso abbastanza da costruirci un partito intorno, figuriamoci un libro (ci hanno persino costruito una religione imbattibile, prima di incasinarla con i regolamenti attuativi). Ma parla di molte cose che girano intorno all’idea che il miglioramento di noi stessi (no, non è roba new age) e del mondo debba essere il motore che fa camminare le nostre vite, perché tutto il resto poi viene da lì. Essere felici, viene da lì. Rendere felici gli altri, viene da lì. E le due cose si aiutano a vicenda. Dovrei forse rassicurare i lettori che vedano in queste perentorie asserzioni un inquietante avvicinamento all’ideologia. L’ideologia è malfamata perché è diventata la mascheratura di interessi inconfessati e sinonimo di rigidità. Ma l’ideologia non è una cosa cattiva – vuol dire «sistema di idee» – se è fluida ed elastica abbastanza, curiosa e dubbiosa, e le idee del sistema sono buone.
Questo libro, insomma, parla di tre cose: una è il rapporto che gli italiani hanno con l’Italia, e il significato dell’identità italiana in questi decenni. È una questione che ha un primo inciampo nella drammatica retoricità della sua definizione: identitàitaliana. Ho provato a trovare espressioni più moderne per rendere questo concetto, «l’identità dell’Italia e degli italiani». Tipo: questo libro parla di ’sto accidenti di paese e della sensazione che ci dà. Vedete voi se preferite. Stiamo comunque già dentro alla questione, quella dei modi per parlarne, dell’Italia.
Una seconda cosa di cui parla questo libro è il meccanismo politico e sociale intorno a cui stanno girando da qualche anno la politica italiana e la relazione degli italiani con la politica. Che è quello del conflitto tra elitismo e antielitismo, conflitto in cui il primo sta soccombendo con conseguenze catastrofiche. Anche a questo concetto serve una formulazione non accademica e meno stancante, che può essere: non siamo tutti uguali. Certi sono più fortunati e certi più bravi, e sono loro che devono – devono – fare le cose più difficili. Altri sono bravi solo in cose specifiche, e devono fare bene quelle. Tutti hanno una parte di cose da fare, che non è mai la stessa per tutti. Ma il mondo sta invece andando dalla parte opposta, quella in cui Sarah Palin poteva diventare vicepresidente degli Stati Uniti e in Italia si viene eletti in parlamento senza sapere chi sia Nelson Mandela o dove si trovi Guantánamo (come rivelò una popolare e deprimente serie di servizi televisivi, qualche anno fa). Si diventa leader politici perché si era fatto qualcos’altro, non necessariamente bene, o per ragioni peggiori. E intanto ci sono persone di competenze e intuizioni straordinarie a cui non è dato nessun accesso al miglioramento del loro paese e di cui spesso è malvista la stessa straordinarietà, e aumentano quelli che rinunciano e trovano di meglio da fare, lasciando ulteriori spazi politici a chi non è tagliato.
La terza e ultima idea di questo libro è che ognuno di noi sia responsabile – in una misura diversa per ognuno – del proprio destino e di quello del mondo. E questo significa due cose: che i progressi collettivi passano per i progressi individuali, e che ognuno ha la sua parte di responsabilità e di dovere. «Fa’ il tuo dovere» è un grande e appassionante insegnamento (cito Norberto Bobbio ed Enzo Bianchi), soprattutto se il tuo dovere te lo sei costruito tu con l’aiuto degli altri.
Questo libro parla di noi, ovvero di voi, e del nostro paese. Ne parla con una solida opinione che questo paese sia spacciato: che la tragedia di un paese ridicolo si sia ormai compiuta. Ma neanche la solidità di questa opinione riesce a toglierci la nostalgia per una cosa che non c’è mai stata e la tentazione di cercarla: un posto di cui essere orgogliosi, contenti, a cui appartenere. Un desiderio che spinge molti ad andarlo a cercare altrove, questo posto, o a sognare di farlo. E che non sarà invece mai esaudito davvero fino a che l’Italia e le sue persone non avranno ricominciato a fare progetti e sacrifici che vadano oltre le prossime due settimane. Se si salva, l’Italia si salva tra vent’anni e solo cominciando a lavorarci come dei matti da subito. Altre strade non ci sono, altre cose non succederanno. Questo lo scrisse lo scrittore e poeta Robert Penn Warren a proposito della fine della segregazione razziale:
Se per riformista intendete una persona che ritarda le cose per il gusto di rinviarle, io non lo sono. Ma se invece un riformista è qualcuno che pensa ci voglia tempo per un processo pedagogico, meglio se progettato, allora sì. È sciocco chiedere a qualcuno se lo sia, un riformista. Il riformismo è l’unica via: la storia, come la natura, non conosce salti improvvisi. All’infuori di quelli all’indietro, forse.
«Riformismo» è un’altra parola noiosa e svuotata, e se la uso è solo per debito nei confronti di un pensiero longevo: ma con i tempi che corrono non è più il contrario della rivoluzione: è la rivoluzione. Pensare di poter cambiare le cose tra vent’anni è rivoluzionario. Niente arriverà all’improvviso a rimettere in sesto l’Italia, lo sappiamo bene e la storia recente ce lo dimostra. E niente arriverà, neanche gradualmente, senza metterci energicamente le mani. Stiamo andando, gradualmente, da un’altra parte. La ragione per cui le tre idee che ho elencato – le rielenco sbrigative? Meglio:
1. ci serve un paese di cui essere contenti, e non lo abbiamo;
2. dobbiamo tornare a usare il valore delle persone e della cultura;
3. ognuno di noi è responsabile e complice.
La ragione per cui stanno insieme in questo libro non è solo che le loro implicazioni si accavallano in più punti, ma più esattamente che la terza determina la seconda e la seconda determina la prima, e quindi la loro successione in quest’ordine è una ricerca dell’unico possibile futuro migliore per l’Italia. Una ricerca disincantata e con i piedi per terra: disincantata e con i piedi per terra, sottolineato tre volte. All’inizio del ventesimo secolo il professor Konstantin Tsiolkovsky, scienziato russo, decise di trovare il modo di andare sulla luna: e non era una cosa tanto credibile, allora. Ci vollero settant’anni e un sacco di lavoro.