Il tribunale di Milano condanna Google sui suggerimenti di ricerca
Accolto il ricorso di un imprenditore che vedeva il suo nome associato al termine "truffatore"
Un collegio del tribunale di Milano ha depositato giovedì scorso una sentenza che impone a Google di evitare che nei suoi suggerimenti di ricerca il nome di un imprenditore che aveva sporto denuncia per questo venga associato ai termini “truffa” e “truffatore”. La sentenza, messa online da diversi siti legali (omettendo in maniere assai incomplete e maldestre il nome dell’interessato, individuabile quindi con un semplice copia e incolla), racconta così il caso:
Il sig. A. B. ha proposto ricorso in via d’urgenza esponendo:
1) di essere un imprenditore del settore finanziario che si occupa, tra l’altro, di organizzare corsi formativi in materia finanziaria e di pubblicizzare la maggior parte delle sue attività tramite la rete internet;
2) di avere verificato che – utilizzando come motore di ricerca Google – non appena veniva digitato il nome B. o A. B. tramite il servizio “suggest search” (“ricerche correlate”) il sito web suggeriva di includere nella ricerca anche le parole “truffa” o “truffatore”.
Ritenendo il ricorrente che l’abbinamento al proprio nome di tali parole costituisca un suggerimento non solo falso, ma anche diffamatorio e dunque lesivo del suo onore, della sua immagine e della sua reputazione sia personale che professionale, ha chiesto al Tribunale di ordinare alla società resistente Google Inc. la rimozione dal proprio software “suggest” dell’associazione tra il proprio nome A. B. e le parole “truffa” e “truffatore”, con fissazione di un risarcimento per ogni giorno di ritardo nell’adempimento dell’ordine del giudice.
Il signor B. nel suo ricorso contestava che Google non avesse provveduto a eliminare l’associazione tra il suo nome e i termini ritenuti diffamatori, pur avendone ricevuta esplicita richiesta: più esattamente le due parole apparivano appena l’utente avesse digitato l’iniziale “t” dopo il nome dell’imprenditore. Una ordinanza dello scorso gennaio aveva già intimato a Google a intervenire, ma Google aveva fatto ricorso sostenendo che il sistema di autocompletamento è basato su valutazioni statistiche che discendono dalle ricerche degli utenti e non dà contenuti di cui è responsabile. La nuova sentenza dà ancora torto a Google, definendolo “una banca dati” e non un semplice motore di ricerca e sostenendo che l’associazione tra i termini è frutto del servizio creato da Google e non di materiale ospitato sul web (anche se di certo l’opera dell’imprenditore è discussa in maniera molto critica su centinaia di pagine web, come si vede cercando su Google).
In sostanza la sentenza dice a Google che se anche il risultato dell’autocompletamento discende da una realtà a cui Google è estraneo (le ricerche degli utenti), la sua visualizzazione avviene solo in forza dell’algoritmo creato da Google e dei suoi criteri. E dismette anche le obiezioni pratiche di Google, che aveva scritto:
“trattandosi si un software completamente automatico, …è evidente l’impossibilità – senza compromettere l’intero servizio – di operare un discrimine tra termini “buoni” e termini “cattivi”, non solo in considerazione del numero indeterminabile di parole con un potenziale significato negativo, ma anche e soprattutto del fatto che il medesimo termine potrebbe avere significati del tutto diversi se abbinati a parole diverse”
Non è affar nostro come Google la risolve, dice il tribunale. E in effetti, se adesso si provi a inserire il nome del ricorrente seguito dalla lettera “t”, la pagina di Google si sbianca improvvisamente rimuovendo ogni suggerimento. Google ha riconfermato il suo dissenso sulla scelta del tribunale. L’avvocato dell’imprenditore ha commentato la sentenza sul suo sito.
Google ha sostenuto che non poteva essere ritenuta responsabile in quanto è un “hosting provider”, ma abbiamo dimostrato che si tratta di contenuti prodotti da loro anche attraverso strumenti automatizzati (per inciso, di sicuro alcuni contenuti vengono filtrati, compresi i termini che sono noti per essere utilizzati per distribuire materiale che viola il diritto d’autore)