Tutte le giravolte di Tremonti
Linkiesta mette in fila i molti ravvedimenti del ministro dell'Economia, dal liberismo al protezionismo
Negli anni si è scritto molto della metamorfosi di Tremonti, passato dal liberalismo degli anni Novanta al protezionismo di questi ultimi anni: di recente alcuni si sono spinti persino a definire “di sinistra” la sua fissazione contro il mercato. Oggi Linkiesta aggiunge alla tesi un po’ di argomenti, mettendo a confronto le dichiarazioni dell’odierno Tremonti con quelle del vecchio Tremonti.
Negli Stati Uniti t’inchiodano per lo spinello fumato al college trent’anni prima. Appena assumi un ruolo pubblico salta sempre fuori un cronista pignolo che si mette a rovistare nel cestino, finchè non trova un po’ di spazzatura da mettere sul giornale. Nel paese del “bunga bunga” non siamo per fortuna cosi puritani ma almeno il cambio di idee, il salto della quaglia intellettuale, bisognerebbe coltivarlo in modo più misurato, soprattutto spiegarlo pubblicamente quando sei un ministro della Repubblica. Anzi, “il più potente ministro dell’economia che si ricordi” (copyright di Guido Rossi). Invece in Italia l’empirismo anglosassone, abituato a procedere per prove e congetture (e quindi correzioni), tende a tradursi in “camaleontismo”. Nel Belpaese tutto si arrotonda, si è perennemente affogati in un eterno e provvisorio presente, e nessuno ti chiede mai conto di nulla, delle tue posizioni di ieri e dell’altro ieri. Giulio Tremonti lo sa, conosce e interpreta il suo paese come pochi, e così ci sguazza. Il nodo vero, lo diciamo subito, non sono le sue idee, figurarsi (delle volte condivisibili altre meno, come per tutti), ma la velocità con cui le cambia.
Quel che segue è un brogliaccio del Tremonti uno e bino di questi ultimi anni sui grandi temi nell’agenda del paese e del mondo. Partendo dall’ultimissima giravolta: il revisionismo sul capitalismo di stato, quella voglia matta di Partecipazioni Statali rivelata sabato mattina a Cernobbio al workshop Ambrosetti: “In questo momento, guardando a come sta cambiando il mondo, per il sistema italiano sarebbe meglio avere la grande Iri e la vecchia Mediobanca. La concorrenza, i rapporti economici, non sono più per campi nazionali, sono ormai tra blocchi di sistema, da continenti, non a caso la Germania è l’unico paese – continua Tremonti – che riesce a parlare da gigante a giganti quali la Cina. Per noi, invece, è più difficile, avendo una quota minore di dimensione di grandi imprese…” Eppure è lo stesso ministro, allora commentatore del Corriere della Sera, che il 27 dicembre 1993, alla vigilia della discesa in campo di Silvio Berlusconi, scriveva sul giornale di via Solferino, in un fondo titolato “La maledizione della Repubblica”, che “dallo Stato al parastato, dagli enti locali a quelli previdenziali e assistenziali, ovunque c’è cosa pubblica, c’è debito pubblico. Ed è inutile farsi illusioni: se lo stato dell’economia è cattivo, l’economia dello Stato va in modo ancora più negativo…”. I suoi sono fondi netti, senza peli sulla lingua, figli di una cultura anti-statalista vigorosa.