Il grande libro del rock (e non solo) – 3 aprile
Le storie del rock di oggi raccontate da Massimo Cotto
di Massimo Cotto
Sei là fuori? / puoi sentirmi? / puoi vedermi nel buio?
Fallen Angel, Robbie Robertson
1943 – nasce Richard Manuel, la cui importanza nel suono e nella filosofia della Band è pari a quella del più geniale Robbie Robertson. Non a caso i musici canadesi scelgono lui come biglietto da visita: è di Richard la prima voce che si sente nel brano d’apertura del debutto della Band, Music From Big Pink. La chitarra di Robbie Robertson, l’organo di Garth Hudson e poi, improvvisa, quella voce soul che sembra di un nipotino di Ray Charles scappato di casa – quella voce a volte in falsetto che, come disse una volta Eric Clapton, «faceva drizzare i capelli in testa a chiunque.»
Muore il 4 marzo 1986, in una stanza d’hotel, dopo un concerto della Band riunita, dopo aver parlato fino alle due e mezzo con il vecchio amico Garth Hudson. Dice che ha bisogno di prendere qualcosa nella sua stanza – una bottiglia di Grand Marnier. La scola quasi d’un fiato, poi si impicca. Come un eroe di quella frontiera che aveva a lungo cantato, come un personaggio errabondo tra la Grande Depressione che ha fortificato il mito dell’America on the road di cui si nutriva e quella Piccola Depressione che lo divorava e che era cresciuta sempre di più fino a diventare cancro. Per la sua parabola – l’impossibilità di stringere in mano quello che ti faceva star bene – e per la sua indiscutibile bravura, è stato cantato e omaggiato da molti. Tra i tanti, da segnalare i Counting Crows, che hanno scritto If I Could Give All My Life or Richard Manuel Is Dead, ed Eric Clapton, che ha inciso Holy Mother. Ma il tributo più bello, commosso e partecipe è certamente quello di Robbie Robertson in Fallen Angel.
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Cosa mandarono alla moglie del soldato / dall’antica città di Praga?
Ballad Of The Soldier’s Wife, Marianne Faithfull e Chris Spedding
1950 – muore Kurt Weill, non un compositore da tre soldi. Figlio del primo cantore della sinagoga di Dessau e mente da prima persona singolare, diventa, con un corpo di opere straordinario, l’inventore di un mondo a parte, di una sorta di terza via della musica, a metà strada esatta tra l’universo colto e la musica popolare. Weill, che lega il suo nome a Bertolt Brecht in una violenta e grottesca satira della decadenza tedesca, è stato il principe della contaminazione, più vicino al jazz e al cabaret che agli stilemi classici con cui i compositori si erano confrontati fino ad allora. A sconvolgere non era solo l’aspetto formale, ma l’attitudine: non l’arte per l’arte, ma l’arte della gente per la gente, lontana dai teatri e vicina al cuore del popolo. Logico che sia sempre stato amatissimo dalle rockstar. Da Sting a Jim Morrison (splendida la rilettura doorsiana di Alabama Song), da Lou Reed a Marianne Faithfull passando per Costello, Rundgren, Tom Waits, non esiste quasi artista contemporaneo che non si sia cimentato almeno una volta con il materiale weilliano o che non si sia ispirato a esso per una sua composizione. Tra gli infiniti tributi, imperdibile è Lost In The Stars, pubblicato nel 1985.
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